The
only and original! Un capolavoro senza altri aggettivi
di Giorgio Maimone
E
quegli zingari eravamo noi. Non ce ne rendevamo conto. Felici e
ansiosi insieme, in attesa di bruciare gli anni della giovinezza,
in attesa di una rivoluzione che non sarebbe arrivata e di una restaurazione
che ci ha rasi al suolo, livellati, ma mai domati. Quegli zingari,
quelle piazze eravamo noi. Era per noi che Claudio cantava. E per
sé. Perché lui era uno di noi, era lì con noi
e con questo disco voleva dircelo, farcelo sapere, comunicare che
“siamo stanchi di ritrovarci solamente a dei funerali”.
Quando passano quasi trent’anni e ti accorgi che
un disco, fotografia di un anno, di un’ora, di un momento
non ha perso un grammo della sua forza vitale, e ti accorgi, per
soprammercato che non c’è niente da fare; quel disco
non è e non sarà mai una raccolta di canzoni, ma una
sola lunga suite divisa in diversi momenti e come tale impossibile
da non ascoltare di fila. Come “Storia di un impiegato”
di Fabrizio De Andrè, come “Senza
orario e senza bandiera” di De André e dei
New Trolls. Dischi imprescindibili degli anni in cui nasceva il
concetto di “concept album” arrivando ai suoi migliori
risultati sia in Italia che fuori. Ora, dicono, “Ho
visto degli zingari felici” ritornerà, in
una nuova versione, con un nuovo abito … ma perché
ritornerà? E dove se ne era mai andato? Non so: a casa mia
sta esattamente sul piatto come 25 anni fa, come 15 anni fa.
Era il 1976.
Al cinema era l’anno di Missouri di Sean Penn con Marlon Brando
e Jack Nicholson, ma anche l’anno in cui veniva condannato
al rogo “Ultimo tango a Parigi” di Bertolucci; l’anno
dell’esordio in musica di Massimo Bubola e l’anno in
cui il Torino giocava per l’ultima volta in Coppa dei Campioni,
e la classifica dei dischi più venduti era guidata da “Sei
forte papà” di Gianni Morandi, “Johnny Bassotto”
di Lino Toffolo, Disco Duck e i Santo California. Erano anni bui,
in cui venti tremendi percorrevano l’Italia: Anni di Montanelli
che invita a “turarsi il naso ma votare Dc”, di Berlinguer
che apre alla Nato e lancia l’Eurocomunismo. Anni, soprattutto
di attentati. Neri, cupi, velenosi. Anni in cui era facile “ritrovarsi
soltanto a dei funerali”.
Claudio Lolli ha preso questo clima, lo ha filtrato
attraverso la sua sensibilità di artista e ci ha raccontato
la cronaca di un anno su una piazza. Piazza Maggiore a Bologna.
Ogni città ha il suo simbolo, qualcosa che la rende diversa
dalle altre. Piazza Maggiore, per tutti quelli che almeno una volta
ci sono passati, non é solo il centro di Bologna, il luogo
fisico dove le strade finiscono. Piazza Maggiore é la grande
piazza. Sotto quei portici circolano le idee, gli affari, le amicizie
e gli amori, si fanno gli acquisti e si discute. Ma anche la piazza
che davanti al sagrato del Duomo ha visto allineare le persone uccise
sul treno Italicus nel '74, quelle della stazione nell'80 e del
Rapido 904 nel l'84. 106 morti e 424 feriti in soli dieci anni.
Di questo e di altro, della storia d’Italia ci canta Claudio.
Dire che quel
"disco che ha cambiato la storia della canzone italiana"
è decisamente esagerato. E purtroppo, mi verrebbe da aggiungere.
Era e resta uno dei dischi più belli mai pubblicati da un
cantautore. All'altezza di un “Creuza de Ma”
o di un “Titanic” o di “L'isola
non trovata”. Ma è stato un disco di "nicchia",
di nicchia assoluta. Il che, se da un lato testimonia della sua
qualità, dall'altro spiega anche perché non abbia
potuto cambiare alcunché. "Gli zingari" era ben
scritto, ottimamente suonato, ben cantato. Era decisamente un'opera
ispirata. Per la prima volta inoltre non ascoltavamo il "solito"
Claudio Lolli, introverso, sfigato e un po’ jettatorio dei
tre dischi precedenti (magnifici, peraltro!). Claudio era solare
in alcuni momenti, fino al punto di lasciare perdere anche gli adorati
accordi in minore per prendere in considerazione qualche accordo
in maggiore.
"Piazza bella piazza", "Anna di Francia",
"Primo maggio", "Ho visto degli zingari felici".
Ma anche "La morte della mosca" ("il
cielo appartiene ai potenti/ alle mosche appartiene la merda"),
"Albana per Togliatti" ("C'è
un compagno, altra generazione/ che vuol bene ai matti/gira con
un fazzoletto rosso/ e una foto di Togliatti"). E in quel
"altra generazione" ci sta già tutta una storia?
I rapporti travagliati col Pci, i vecchi comunisti, padri a cui
rapportarsi da figli ribelli. La bellissima "Agosto"
("Agosto. Che caldo, che fumo/ e che odore di brace.../
Da quel quarto piano in questura/ da quella finestra/ un treno è
saltato"). Un disco senza un solo momento debole. Come
dimenticare il dettato fondamentale di "Anna di Francia"?
"Non sarò per te un orologio/ il lampadario che
ti toglie il reggiseno/ quando è tardi è notte e tu
sei stanca/ e la tua voglia come il tempo manca”. In
anticipo sul dibattito femminista. Che bella! E che ritmo incalzante!
E che calore! Tutti i colori, il piacere, la vita di strada di quegli
anni. La gioia poi di scoprire sempre più Lolli come uno
affine, uno in grado di starci su quella piazza e non un piccolo
Leopardi, ripiegato a cullarsi i suoi dolori.
"Piazza bella piazza ... ci passai con i pugni in tasca,
senza sassi per le carogne". I dolori sono collettivi, le rabbie
sono collettive, le piazze sono le nostre case. "Capitavamo
d'essere tanti/ capivamo d'essere forti/ il problema era solamente/
come farlo capire ai morti". Claudio cantore in anticipo
dei moti del '77, Claudio cantore perenne delle nostre passioni,
delle nostre contraddizioni. "Ed eravamo davvero tanti/
ed eravamo davvero forti/ una sola contraddizione/ quella fila,
quei dieci morti". E in grado di spremere frasi, allora
solo politiche e poi compagne di vita, sempre più in questi
anni bui che si avvicinano ai tramonti. "Siamo stanchi
di ritrovarci/ solamente ai dei funerali". E quanti funerali!
E quanti amici abbiamo seppellito. E come era difficile valicare
quel sottile solco tra privato e politico: "che cosa da
niente oggi essere lì/ a morire senza il sole del Vietnam".
Il vinile che si consuma man mano, giro dopo giro della puntina
tra i solchi, fino a imporsi l'acquisto di un altro vinile per sostituire
quello così rigato da non sentirsi più altro che crack
e fruscii, interrotti dalla voce di Claudio. "È
vero che dalle finestre/ non riusciamo a vedere la luce/ perché
la notte vince sempre sul giorno/ e la notte sangue non ne produce".
Il disco, concepito
come un'unica suite, senza pause, con parti orchestrali di fusione
tra un brano e l'altro con gli arrangiamenti e le invenzioni musicali
di Danilo Tomasetta, Roberto Soldati, Roberto Costa
e Claudio Lolli, con sezioni di fiati (un sax e un flauto magistrali,
suonati da Danilo Tomasetta stesso), percussioni e un nutrito gruppo
di musicisti alle spalle, con cui andrà anche in tour. Ora
il ritorno con il Parto delle Nuvole Pesanti. Speriamo
bene. Comunque mi sembra un bel segno il fatto che torni questo
disco, forse un segnale che le strade dei sogni che erano state
"disoccupate" sarebbe rioccuparle di nuovo. Il segnale
che è necessario riprendere la lotta politica, sotto altre
forme, in altri modi, sotto un altro cielo, ma non meno cialtrone
e cupo di quello. Ma i semi musicali gettati da Lolli con la versione
originale di "Ho visto anche degli zingari felici"
(titolo ripreso da un film jugoslavo che non c'entra nulla con l'album)
non fiorirono. No, "Ho visto degli zingari felici" non
ha cambiato la storia della canzone italiana. Ha cambiato la mia.
Che è decisamente meno.
Le ultime quattro
strofe della ripresa finale della ballata che dà il titolo
all'album sono liberamente rielaborate da "Cantata
del fantoccio lusitano" di Peter Weiss,
trattate con un mutamento di prospettiva rispetto all'originale:
cioè come il rifiuto dei colonizzati alla colonizzazione,
per un recupero dei beni di cui sono stati espropriati. ("Siamo
noi a far ricca la terra/ noi che sopportiamo/ la malattia del sonno
e la malaria.../ ma riprendiamola in mano, riprendiamola intera
/riprendiamoci la vita/la terra, la luna e l'abbondanza")
Claudio
Lolli
"Ho visto degli zingari felici"
Emi - 1976
Nei negozi di dischi
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aggiornamento: 13-03-2003 |