Oltreoceano
col cuore oltre il lago: il concept dell'affabulatore Davide
di Giorgio Maimone
"E
semm partii, abbiamo attraversato il grande mare, salvo accorgerci,
dall'altra parte, che sembrava di stare sull'altra sponda del nostro
lago. Allora abbiamo tirato fuori le nostre chitarre, i nostri ricordi
e ci siamo messi a suonare le nostre canzoni. Altri si sono uniti
a noi: hanno tirato fuori altre chitarre, con altre forme, un violino
uguale al nostro, ma suonato in modo diverso, un'armonica, un asse
per lavare i panni, tipo quello che usano le "lavandere del
lac" quando "sfregan i pagni e'l rifless di muntagn".
E il bottleneck e le percussioni sulle tolle della benzina e anche
i giocattoli dei bambini, l'ocarina messicana, il viento del deserto.
Le musiche sembrano le nostre, ma suonano diverse. Più rilassate,
più lente, eppure più cariche. Ma sono le storie che
restano sempre storie del lago, con i suoi fantasmi e le mie paure".
Davide
Bernasconi diventa grande e ci regala un album maturo di musica
e parole, di racconti e di sogni, di incubi e intrecci. Trasferisce
la sua musica al di là dell'Atlantico e ci regala un grande
album di musica americana delle radici che, miracolo, serve magnificamente
a veicolare le sue storie. Siamo dalle parti di "Nebraska"
di Springsteen, siamo dalle parti di Tom
Waits, ci aggiriamo per i deserti assolati (o assoluti?)
delle tradizione musicale U.S.A. e abbiamo tra le mani un album
registrato in cantina. E registrato un gran bene. Con un dispendio
di chitarra da far invidia a Duane Allmann e con
un tocco da parte del nuovo pard in esplorazioni musicali del Davide
(che risponde al nome di Marco "Python" Fecchio)
che ricorda quello di J.J. Cale. Blues con armoniche
e chitarre in pieno slide, dobro e Stratocaster. Il sogno americano
di un lariano!
Che non deve
suonare minimamente diminutivo! "Akuaduulza" è
un signor album. Forse non così innovativo da un punto di
vista musicale, forse non così "forte" come
"E semm partii", ma dotato di una struttura di
fil di ferro che lo tiene sempre e comunque in piedi, consentendo
la prova dei molti ascolti e regalandoci qualche gradino in più
di piacere ad ogni solco che passa e ripassa il lettore. Il punto
più grande (e qui Davide è rimasto tra i pochi) è
che questo è totalmente, assolutamente, imprescinibilmente
un concept album. Si può anche solo leggere
il libretto (bello!) per accorgersene. Davide dichiara e realizza
coerentemente il suo album di "gotico lombardo", dove
si parla di streghe, di talismani magici, di maghi, di scorpioni,
falene, fantasmi, corvi e rosenere. In mano a qualcun altro poteva
nascerne anche un gran pasticciaccio.
Con Davide
no: la mano dell'autore, del raccontatore, dello scrittore è
sempre più sicura e le sue storie si fanno ascoltare (o si
leggono) con vera passione. Davide non è interessante solo
perché possiede un maledetto geniaccio della metafora e perché
riesce sempre a trovare una via poetica per parlare al cuore delle
persone: è proprio bravo a scrivere. E "Akuaduulza"
avrebbe anche potuto diventare un libro, magari un film, una raccolta
di poesie. È diventato invece un disco, perché a Davide
piace cantere e suonare e si circonda quasi sempre dei giusti pard,
anche se, rispetto a Tex Willer, li cambia con molto maggior frequenza.
È chiaro che chi vorrà attaccarlo in modo preconcetto
troverà facile appiglio nelle musiche: effettivamente non
c'è niente di nuovo. Il solito giro di accordi di un blues,
di un country rock. di un brano di "americana". D'altra
parte Davide è esplicito: "Le atmosfere del disco
- ha detto nelle varie presentazioni - sono direttamente
ispirate alla Louisiana, New Orleans, Baton Rouge, come anche il
Delta e il Mississippi, perché le influenze in questo disco
sono abbastanza ammiccanti a questo tipo di terra e alla tipologia
di artisti che questa terra ha generato". Chiaro?
Resta il fatto che, comunque, queste canzoni suonano bene e
hanno "tutte" qualcosa da dire. Tutte! Non ci sono canzoni
banali o di transizione. Certo, non siamo allo sperimentale, siamo
nel solco della tradizione musicale, e per giunta di una tradizione
non di casa nostra, ma, sinceramente, a qualcuno ne interessa qualcosa?
Provate a sentirle le canzoni, provate ad ascoltarle con orecchie
e cuore aperto e sentite le magia del violino di Angapiemage
Galliano Persico (Anga, insomma) nella title track o in
"Madame Falena" o in "Nona
Lucia" e l'accompagnamento al piano di Alessandro
Gioia (anche produttore artistico e arrangiatore assieme
a Davide) sempre in "Akuaduulza". Se
non vi bastano son problemi vostri, non miei.
A me "Akuaduulza" piace e sembra che rappresenti un ulteriore
gradino sulla scala che Davide sta lentamente salendo, verso una
maturità espressiva e una profondità di racconto e
di storia narrata con qualsiasi mezzo: canzone, poesia, racconto,
teatro.
Ma vediamo
una per una le canzoni: l'attacco è affidato a "Madame
Falena": una storia nera "alla Peckinpah",
dice Davide, "una rumba gitana". La storia è bellissima
e cinematografica: la donna seduta sulla veranda (che viene citata
quattro volte e alla fine diventa "sto cazzo di veranda!",
ha ucciso il marito il giorno delle nozze perché l'ha trovato
a ruzzare nel fieno con un'altro donna. E lei, molti anni dopo,
resta a dondolare sulla sedia a dondolo in veranda (che ormai scricchiola
come le sue ossa) ripensando al giorno del matrimonio, a quel "temporale
di un secondo e mezzo e a un buco in un bel vestito". Geniale!
Grande racconto e grande canzone, con ottimo supporto di Anga e
delle percussioni di Alessandro Chiamenti e Alessandro
Gioia , oltre che della chitarra "gitana" di Simone
Spreafico dei Mercanti di Liquore.
"Il paradiso dello scorpione" è invece
una trucida storia di una sorta di "Sugamara", dropouts,
marginale, fuorilegge, con ogni probabilità un contrabbandiere
che si rifugia in un bordello (quello del titolo) per sfuggire alla
"Alfa con su scritto Finanza". E la maitresse lo accoglie
come sempre con gentilezza, mentre "una dona che paar un anguila
la maneggia mudand e lenzoo" (maneggia mutande e lenzuola),
perché "se il demonio ha una bottiglia, questa donna
è il suo imbuto". Una sorta di Jamin-a in salsa lariana.
Donna fatale nella quale perdersi.
"Cara Madona" è l'ennesimo blues
del disco, anche se siamo solo al terzo pezzo. Lento e solenne come
si addice a una preghiera, con l'unico accompagnamento di Marco
"Python" Fecchio alle chitarre e percussioni
di sfondo. "Non far scappare i nostri fantasmi / senza di loro
non sappiamo più chi siamo" è la preghiera finale
e la frase di volta della canzone.
Appena un'attimo di pausa in un'ispirata "Akuaduulza
intro" di un minuto e mezzo ed è subito ora
della title track. Che giustamente ha dato titolo al disco e occupa
una posizione centrale. Inizia il violino di Anga, segue la chitarra
di Simone Spreafico e infine entra il piano di Alessandro Gioia
(per la prima volta il piano in un disco di Van de Sfroos se non
andiamo errati). La canzone è calma e intensa e le parole
le fanno giustamente corona, come i monti al lago di Como ("Lavandera
in soe la riva cul to ass per pugià giò i genoecc
/ El savon e la camisa, sfrega i pagni e ‘l rifless di muntagn.
/ E quest’unda vagabund l’è una lengua che bagna
i paroll"). Seconda grande canzone, di quelle che valgono
l'acquisto del disco.
Dopo una canzone così pensosa e lenta, occorre dare una svolta.
Ed ecco "El fantasma del ziu Gaetan",
classico van-de-sfroos-style, può ricordare un po' "Grand
Hotel", anche se c'è la presenza di un basso tuba che
fa il fantasma e di tutta una serie di percussioni giocattolo che
danno però un colore preciso al pezzo. Il fantasma poi è
bellissimo: "L'e' el fantasma del ziu Gaetan, una sciabula
in ogni man/ l'è turnaa indrè de Balaklava cun't i
occ che pareven lava / soe la spala g'ha un barbagian e 'l caval
l'è de verderam / i barbis cumè catram e la facia
culur zafran" (sopra la spalla ha un barbagianni e un cavallo
di verderame / i baffi come catrame e la faccia color zafferano).
"Il libro del mago" è un
altro pezzo di sostanza, ma vedrete che alla fine non saranno pochi.
Inizia con un rosario di formule magiche che ricordan Dylan Dog.
È cantata metà in italiano e metà in dialetto,
sostenuta solo dalla chitarra di Davide e dalla lap steel di Python.
"I gent voeren savè nel gerlu del destin cussè
che gh'è / fissaa cun't el dumann e intant el teemp el ghe
bòrla foe di man / e alura tucc dal Magu a ruump i ball /
el muund ghe va pioe bee e mi g'ho da cambiall / o fa' paree de
fall"(La gente vuole sapere cosa c'è nella gerla del
destino / fissati con il domani e intanto il tempo gli sfugge dalle
mani / E allora tutti dal Mago a rompere le balle / Il mondo non
gli va più bene e io devo cambiarlo / o fingere di farlo).
Come non fare un parallelo tra questo personaggio e il "Medico",
"dottor professor truffatore imbroglione" di
De André/Edgar Lee Masters?
"Shymmtakula": la difficoltà principale
è leggere il titolo, perché il testo è in italiano,
anche se secondo Davide è più difficile da capire
dei testi in dialetto. Shymmtakula è un talismano, inventato
da Davide, come pure il nome, per proteggere chi cammina nella notte.
Tutto il disco in fondo, prendendo un po' lo spunto da dove il discorso
si era fermato in "Kapitan Kurlash" fa i conti con le
paure del bambino Davide, quasi fosse una soglia da passare adesso
che bambino non è più, anzi è padre e alla
soglia dei 40 anni (tra due mesi). Un tirare le somme e mettere
via le paure da bambino, che non passeranno mai, ma, se dotati di
buoni talismani, le si può esorcizzare.
"Nonna Lucia" è una pausa di felicità.
La storia è sempre gotica-lariana, la nonna è una
strega che fruga nel fuoco con le mani, che vola via con un manico
di scopa in mezzo alle gambe, che ha sempre sete di vino. Ma l'accompagnamento
è un puro country, oasi di luce dopo tutto il buio di Shymmtakula.
"La preghiera delle quattro foglie" è
invece un altro angolo raccolto e si riferisce direttamente all'aspetto
animistico della poesia di Davide. Fragile e lieve, un episodio
un po' minore, ma molto gradevole.
Invece con "Fendin" ritorniamo al centro
del tema. Ecco un altro "maledetto", storia o leggenda
chissà? Fendin (o Difendente di nome intero) era ciabattino
e barcaiolo (e si sa che i ciabattini sono sempre imparentati col
demonio), che per avarizia non volle pagare il tributo in sale per
far benedire le barche. Da lì in poi le streghe per recarsi
ai sabba sul lago hanno sempre usato la sua barca, a volte portando
anche il povero Fendin con loro. Pare che la morale che ne ha tratto
Fendin sia stata "Può sempre capitare qualcosa di storto
/ a chi ha il braccino corto". E la canzone introdotta da formule
magiche che sembrano arabe, ma è lingua inventata dal Davide
funziona a meraviglia. Compare anche la voce di una strega: Caterina
Magni, unica presenza famminile nel disco, assieme ai richiami a
Fendin delle altre sei streghe. Fondamentale nel disco.
Ma non rilassiamoci neanche per un attimo, perché c'è
un altro brano fondamentale: "Il corvo",
seconda canzone in italiano. Bluessaccio d'atmosfera e d'effetto
e grande testo: "E se prendo dal vostro campo prendo quello
che lei vi ha dato / E se ho preso dal vostro corpo è perché
lui era finito / Prendo quello che avete ucciso e pulisco il non
seppellito / non sono io la causa, non sono io il fato / Non sono
io il giudice, non sono il soldato / Sono soltanto il corvo e oggi
canterò". Meditate gente. Potrebbe essere una metafora
globale: sugli esclusi, gli emarginati, quelli che si portano dietro
fame immeritate e, perché no, gli immigrati, gli extracomunitari,
quelli a cui nella padania felix viene attribuita ogni colpa e su
cui vengono scaricate le paure della collettività. Bella.
"Rosanera" è
un momento di pausa? Ma nemmeno per scherzo! Altra canzone importante.
Apparentemente descrive la sorte di una chitarra che è passata
di mano in mano da Garcia Lorca a Joyce a zingari e gitani a Bob
Dylan, fino a ricevere un colpo di rivoltella in Algeria. Attorno
a quel buoco viene disegnata la rosa nera del titolo. Bellissima
la frase: "una dona in Valtelena che parlava cun't i sant
/ la m'ha dii che tucc i legn se regorden i so' piaant / che g'è
un legn per faa una cruus e un legn per fa' una porta / per il legn
de 'na chitara la sua pianta l'e mai morta" (una donna in Valtellina
che parlava con i santi / mi ha detto che tutti i legni si ricordano
della loro pianta / che c'è un legno pr fare una croce e
un altro per fare una porta / per il legno di una chitarra la sua
pianta non è mai morta). Ma la frase fondante arriva
in chiusura: "solo chi spara a una chitarra non ha
diritto a una canzone" (cantato in italiano perché
non ci siano dubbi). Quanti temi! Da "non sparate sul pianista"
a "e spararono al cantautore", a un monito a tutti i critici
tastieromuniti a pensarci bene prima di sparare a zero su una chitarra
o un autore, perché non è operazione degna. Io ci
medito.
"El baron" finalmente è un attimo
per tirare il fiato. Divertente e veloce, perfettamente in tema
col resto del disco, non imprescindile. Ennesima figura di un diverso
che li raggruppa tutti.
Finale col vento, come ormai è tradizione per Davide: "Breva
e Tivan", "Ventanas" e ora "Il prigionero
e la tramontana". Solo Davide e chitarra, la chiosa
che ci vuole. Spente le luci, che per la verità non sono
state mai molto luminose in questo disco. Non avessimo avuto la
nostra Shymmtakula personale ci saremmo smarriti presto. "Il
prigioniero e la tramontana" è un po' nel solco (che
a me piace molto) de "L'omm de la tempesta". "E
diciamo tutti è presto, è tardi, ma nessuno sa per
che cosa / e diciamo tutti che eravamo angeli e che ci hanno dirottati
/ ea bbiamo le ali stropicciate ripiegate sotto il cappotto".
Degno finale di un ottimo disco. Bravo Davide, la strada è
quella giusta!
Davide
Van De Sfroos
"Akuaduulza"
Tarantanius - 2005
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aggiornamento: 26-02-2005 |