Voglia
di silenzio
di Nico Chillemi
La canzone che fino a oggi
mi ha dato più brividi non è di Guccini. Non è nemmeno di De Andrè.
Eppure questi due meravigliosi signori hanno saputo darmene di brividi
in tutti questi anni. E tanti! Quella di cui parlo è una bellissima
canzone, di quelle che riescono a cambiare la visione delle cose,
che rispecchia in pieno quella che è ormai da qualche anno una delle
mie esigenze primarie: voglia e bisogno di silenzio! Come dice il
mio amico Red, a volte è bello capirsi senza parlare! Così come
sarebbe bello se tanta gente che ci circonda, dal mondo politico
a quello sportivo, dalla cerchia dei conoscenti a quella dei colleghi
di lavoro, dai parenti agli amici, provasse a chiudere gli occhi
lasciandosi trasportare dai pensieri o, perché no, provasse a godere
di questa incredibile sensazione. È bello a volte starsene in silenzio,
scoprire, gustare il silenzio che la mente può offrirci anche in
presenza del rumore più assordante, ascoltare in silenzio una persona
cara, godersi il silenzio dei propri sentimenti che non hanno nulla
da dire perché si esprimono da soli ("tutte le lingue del mondo
non ci servono per capirci e l'unica lingua che ho non mi basta
per baciarti, per baciarti dove vorrei, dove sei bella come sei,
dove non c'è mai stato bisogno di parlare" - Tutte le lingue
del mondo, quarto splendido brano dell'album che stiamo scoprendo
insieme), immergersi nel silenzio della penombra della propria stanza
in quei momenti in cui non si sa che cosa fare per prima e non si
ha nemmeno voglia di pensarci.
Una
volta esisteva un silenzio che parlava:
...ripensando a quel silenzio magico,
quel silenzio che non c'era più,
e ai rumori del mondo, antipatici,
dispettosi alzavano il bicchiere,
e i più romantici svillaneggiavano
mostrando il sedere...
Sì, la canzone magica è
questa, “La fine del cinema muto”,
di Claudio Lolli, contenuta nell’album del ritorno di Claudio
sulla scena, sulla nostra scena, “Claudio Lolli – Omonimo”
del 1988. Si è trattato di un ritorno alla sua maniera, cioè
appunto in silenzio. Tanto è vero che molti dei suoi estimatori
non se ne sono nemmeno accorti subito, ma soltanto dopo qualche
anno quando Claudio, assieme al suo chitarrista e amico fraterno
Paolo Capodacqua, ha cominciato a proporla durante i concerti del
loro “Viaggio in Italia”. E allora la domanda era d’obbligo
“Ma allora hai scritto qualcos’altro in questi ultimi
anni?” Inutile dire che, per noi, si è trattato di
un ritorno alla grande.
“La fine del cinema muto” ci trasporta, fra un brivido
e l'altro, in un mondo magico, in cui più si cerca di rimanere
e da cui invece purtroppo più si continua a uscire.
... si perdevano in discorsi accademici
sulla storia e il suo occhio di lince,
per capire se è vero che chi perde ha torto
e che ha sempre ragione chi vince...
Già, chi perde ha torto e
ha sempre ragione chi vince! È la ferrea regola del “saper
campare”! E non solo! Edoardo e Eugenio Bennato hanno ripreso
questo stesso concetto applicandolo alle guerre (“perché
il più debole ha sempre torto e il più forte ha sempre
ragione” – A cosa serve la guerra – da “L’uomo
occidentale” di Edoardo Bennato), ai motivi futili e insensati
per cui vengono combattute. I potenti una guerra la vincono sempre,
i deboli la perdono sempre. Non ha bisogno di commenti! I parallelismi
fra i due album non sono però finiti. Il secondo brano del
disco di Lolli, “Aspirine”, è
anch’esso un pezzo da ascoltare in silenzio, al quale si riconduce
in qualche modo “Every day, every night – A Kiev ero
un professore” del disco di Edoardo. I due personaggi, il
professore di filosofia di Bennato (“perché tra il
mio futuro ed il mio passato questa terra di nessuno è un
passaggio obbligato”) e l’uomo descritto da Lolli (“c’è
terra di nessuno fra l’angoscia e Gorbaciov... e lì
vorrei portarti e riposarci ancora un po’”), si trovano
entrambi a fare i conti con un passato, che comunque non rinnegano,
per rivedere il proprio ruolo nella società il primo, e il
proprio rapporto sentimentale il secondo.
Si passa poi dalla quotidianetà,
sempre silenziosa, de “La pioggia prima o poi”
(“Le impressioni solite della luce e del colore si mescolano
a un brivido di aria mattutina, le automobili cominciano a muovere
le ore, ti spettino un orecchio e ti faccio più carina...
e la città è già nuvola, oasi senza deserto,
e camminiamo tutti dentro alla carta velina, sotto a un cielo pirata,
con un occhio coperto, la pioggia, prima o poi, ci arriverà
vicina”) al perenne contrasto chiaro con le ferre regole
della società, per la quale il tempo è denaro, laddove
per Claudio invece è molto più importante, direi fondamentale
nella vita di tutti i giorni, quel tempo, appunto “Tempo
perso” (“il tempo ci scrittura come un
impresario, noi lavoriamo gratis nel suo calendario e con un contratto
ci farà pagare le poche cose che riusciamo a rubare, i baci
rubati dietro le colonne o nel tempo perso di una notte insonne”),
che invece denaro non è, ma rappresenta ben altro per
noi che transitiamo velocemente in questa vita (“il tempo
presente non si conosce, perde tempo a difendersi dalle angosce,
si rifà vivo, molto invecchiato, solo quando sarà
tempo passato”) e che avremmo anche il diritto di godercela
un po’, in silenzio.
Chiude il disco un brano che secondo
me è un vero capolavoro, sia per la musica (probabilmente
è l’arrangiamento meglio riuscito di tutto l’album),
che si lascia ascoltare ancora prima di far caso alle parole (cosa
non facile nelle canzoni di Claudio), ma soprattutto per come racconta
quello che racconta. È un pezzo che mi tocca profondamente,
che tocca una dimensione (quella del professore) sempre silenziosa,
che è tutta mia e che sono riuscito solo di sfuggita a sfiorare
con mano. Credo proprio che insegnare sia quello che avrei voluto
fare da grande, ma la vita mi ha portato purtroppo a dover fare
altre scelte. Aver vissuto il contatto con i ragazzi per poco meno
di un anno mi fa mancare ogni giorno di più questa dimensione
di rapporto fra professore anarchico (“Di cosa parleremo stamattina,
di Marx oppure dell'ottava rima, o studieremo nella nebbia sui vetri
le probabilità di futuro per gli innocenti, innocenti come
siete voi, santi volgari ed ignoranti eroi di un mondo che non vuole
e comprerà la vostra libertà” – “cari
ragazzi dell'ottanta noi, santi volgari ed ignoranti eroi, rompere
i vetri in caso di soffocamento ... e via col vento...”) e
studenti (“Via col vento, via col vento, che non ha più
risposte, solo un presentimento, via col vento, professore, per
cominciare a vivere abbiamo poche ore, via col vento, via col vento,
chissà perché mi viene in mente oggi la mia prima
millecento...”), dimensione che Claudio, in “Via
col vento”, ci fa vivere con incredibile emozione.
Ho voluto lasciare in fondo la terza
canzone dell’album, che ha per me un significato particolare
perché parla di una terza Rimini dopo quelle di De Andrè
– “Rimini” – e Guccini – “Inutile”
–.
È difficile fare confronti, e sicuramente io sono la persona
meno indicata per fare analisi di testi, visto che ci sono sicuramente
persone più competenti di me in proposito, fra professori,
linguisti e letterati. Ma questo tipo di confronto mi intriga troppo,
sebbene non è mia intenzione farlo ora qui! Mi intriga perché
Rimini ha un suo fascino, lo ha sempre avuto, e non credo che sia
casuale che tutti e tre i più grandi ne abbiano parlato,
utilizzandola come pretesto per raccontare qualcosa con una canzone.
Già dalla prima strofa di “Adriatico”
(“Non ci sono olandesi a Rimini a parte qualche turista,
non ci sono ingegneri idraulici con progetti di riconquista, non
ci son terre da recuperare, niente battaglie, tutto a posto sembra
che debba averla vinta il mare...”) viene subito il primo
pensiero, per non chiamarlo sussulto, che ti prende in toto, e cioè
se questi versi vogliono in qualche modo ricordare le altre due
Rimini, quella di Guccini (“a parte qualche turista”),
ma soprattutto quella di De André (“non ci sono
ingegneri idraulici con progetti di riconquista, non ci son terre
da recuperare”, oppure “che non promette viaggi che
non ci porterà mai lontano” in una strofa più
avanti). Qui veramente si tratta di un grosso sussulto! Infatti,
anche se la canzone è della metà degli anni ‘80
quando ancora aspettavamo con ansia il prossimo album di De André
(“Le nuvole” n.d.a.), ti sembra quando la senti come
se Lolli volesse ogni volta ricordare Fabrizio... forse perché
siamo noi a volerlo ricordare attraverso le sue parole. Le tre Rimini,
in ognuno dei casi una Rimini simbolo di qualcosa di triste, la
grande distruzione di un popolo descritta da De André, la
piccola triste giornata d'amore descritta da Guccini, le piccole
grandi tristi sensazioni descritte da Lolli. Queste ultime sensazioni
esprimono anch’esse un forte desiderio di silenzio, che contrasta
con il “baccano” derivante da un mare come l’Adriatico,
che per Claudio rappresentava anche quelle vacanze alle quali si
è costretti da una tipica famiglia borghese emiliana.
Vorrei tornare un attimo a
quel mio bisogno di silenzio che, come ho scritto all’inizio,
contrasta con il dover vincere a tutti i costi. Spesso infatti vincere
viene identificato con il parlare e il silenzio diventa inevitabilmente
perdente! “Ma che fai, non parli?” mi dicevano quando
ero bambino, oppure “Ha detto una parola, adesso nevica!”,
anche in pieno luglio. Poi si cresce, si comincia a lavorare, e
avere sempre qualcosa da dire diventa pressante, quasi asfissiante...
per vincere! Non mi piace vincere così! Mi piacerebbe vincere
in un’altra maniera, facendo vincere i perdenti... forse è
per questo che non farò mai carriera.
Claudio
Lolli
"Claudio Lolli"
Emi - 1988
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aggiornamento: 01-06-2004 |