SCOPERTA
(1974)
Pareva fosse un giorno come gli altri,
Andavo in bicicletta al mio lavoro,
La fabbrica è proprio lì davanti,
Persone che parlavano tra loro.
Curioso mi fermai ad ascoltare
Ed altri si facevano d'attorno;
Dicevi: qui dobbiamo scioperare,
La Direzione chiude un altro forno.
La mia ragazza, quasi una bambina,
Ti ho vista bene per la prima volta,
Pensavo fossi ancora ragazzina,
Mi hai visto e mi hai gridato: vieni, ascolta,
Vogliono licenziare il buon Leone
E Mario e Gigi e Franco e poi l'Arturo,
Dobbiamo dimostrare chi ha ragione
E mettere il padrone spalle al muro.
Vederti lì, sicura di vittoria
Perché ti sorreggeva la ragione,
Scrivevi tu la vera nuova storia,
Un primo passo di liberazione;
Avrei voluto essere un pittore
Per farti un quadro stabile e immortale,
Un giovane bellissimo oratore
Davanti agli operai tutti a guardare.
Qualcuno si opponeva per i soldi
Che oggi non avrebbe guadagnato,
Che cosa avrebbe dato alla famiglia?
Temeva, insomma, di esser licenziato.
Un attimo e stavo lì al tuo fianco
E mi facevo in quattro per spiegare;
Un attimo, un attimo soltanto
Ed eravamo in mille lì a lottare.
Spiegare bene: stiamo tutti uniti,
Ché siamo in tanti, e uniti siamo forti,
I tempi del terrore son finiti,
Senza di noi i padroni sono morti;
Uniamoci, facciamo agitazione,
Uniamoci, la lotta sia serrata,
Se non si piegheranno alla ragione
Si troveran la fabbrica occupata.
La lotta ci portò alla vittoria,
Degli operai nessuno è licenziato,
Ma dentro a questa storia c'è è una storia
Che proprio dalla lotta ha germogliato:
Quel giorno che ti ho vista che lottavi,
Quant'è la dignità che poi ti muove,
Mi sono accorto quanto sopportavi,
Io sempre cedo alle cose nuove.
La mia ragazza, quasi una bambina,
Ti ho vista bene per la prima volta,
Pensavo fossi ancora ragazzina
Ma ho capito quello che più importa:
Da oggi so che posso star sicuro,
Che quando penso a te non c'è timore,
Non sento più incertezza nel futuro,
Da oggi alfine so che sei l'amore.
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di
Francesco Genitoni, da www.prodigio.it/articoli.asp
Il cantautore Pierangelo Bertoli non è di certo un "handicappone",
l'handicappato pigro e piagnucoloso che pro.di.gio. ha esorcizzato come
pericoloso fin dal suo "numero zero". Lo testimoniano la carriera
artistica del cantautore, il suo impegno politico e sociale, la vita privata.
Lo cantano le sue canzoni/poesie, con testi che accanto a storie liriche
e d'amore parlano anche di sfruttamento, di emarginazione, di tossicodipendenza,
di emigrazione.
"A muso duro" - canzone che è manifesto programmatico
e una sorta d'autoritratto in musica - chiude da sempre i suoi concerti.
E non per caso né per narcisismo, ma per coerenza, per sincerità,
per il desiderio di manifestare sempre il proprio punto di vista, anche
quando è scomodo, controcorrente, e si paga con l'esclusione dai
grandi mezzi di comunicazione (leggasi TV, regno del perfetto, del bello,
della condiscendenza) e la messa in disparte. La caparbietà e la
forza espressiva di alcune delle sue più famose canzoni Bertoli
le ha esercitate anche nei confronti della vita.
I suoi pezzi si caratterizzano per i testi e un linguaggio musicale personale,
con contaminazioni tra rock, musica popolare italiana, country, blues.
Il cantautore emiliano è sempre andato e va ancora a cantare dappertutto,
dai teatri ai palazzetti dello sport alle feste popolari o di partito.
Di recente ha tenuto una serie di concerti all'interno di alcune carceri
italiane, con grande impatto emotivo.
"Io
sono nato libero. Mia madre era per la libertà assoluta. Ho cercato
di vivere una vita normale. Mi è andata bene. Avevo un fisico 'stortignato'
dalla metà in giù ma molto forte. E l'ho trattato malissimo:
ho faticato e fumato troppo, guidato tanto, fino a 800 chilometri al giorno
per 300 giorni all'anno. Oggi il corpo mi dà, e con ragione, qualche
segnale di stanchezza: sento più adesso che quando ero giovane
la condizione di handicappato".
Bertoli
mi riceve nella sua villa nella zona sud di Sassuolo, capitale mondiale
delle piastrelle di ceramica, 40.000 residenti tra i quali Pierangelo
è uno dei pochi che può vantarsi di essere nato nel quartiere
più tipicamente e orgogliosamente sassolese. Di recente ha ripubblicato
la sua prima raccolta di canzoni nel dialetto locale: "Roca Blues"
(1975), che conteneva già alcuni dei testi ancora oggi famosi.
"Anche
se non ho potuto mai muovermi davvero da solo, ho cercato di vivere una
vita normale, avendo rapporti con le donne, una moglie, la benedizione
dei figli. Cosa mi è mancato? Be', non ho mai giocato a pallone,
ad esempio. Le donne? Erano loro la risorsa, mi cercavano e risolvevano
i problemi. D'altra parte si conquista una donna solo se lei è
disposta a farsi conquistare: sono loro che scelgono...".
Cosa
può diventare causa di limitazione, di prigionia?
«L'educazione, la cultura, i genitori, il prete, la suora, gli
anziani... Non bisogna mai piangersi addosso, usare espressioni come quelle
che usavano con me: "Poverino, così bello, che peccato!".
I genitori non devono vivere e fare vivere l'handicap come una tragedia.
Ricordo una ragazza all'Handy Camp, il campeggio per handiccapati di Ronchi
d'Ala: venne al campo costretta dal suo medico e alla fine non voleva
più tornare a casa. Io dissi alla madre: "Madri e fratelli
spesso ti aiutano ad essere più dipendente: l'eccesso di amore
ha effetti negativi"».
Ma
è possibile essere autonomi fuori di casa?
«L'handicappato
è un rompiscatole. In Italia l'abbattimento delle barriere è
ancora un problema: negli uffici pubblici, in chiesa, all'università,
in banca, nel condominio... La possibilità di muoversi e lavorare
all'interno delle strutture più vecchie è praticamente nulla.
Negli anni '80 ho fatto parte della Commissione parlamentare per le leggi
sull'handicap. Quando si proponevano sanzioni contro chi non rispettava
le leggi erano tutti contrari; ancora oggi in Italia si può violare
qualunque norma, senza problemi. La Jervolino mi diceva che agli enti
che si occupano di assistenza - perlopiù ecclesiastici - venivano
pagate cifre enormi, date spesso alle persone sbagliate, quelle che impediscono
al portatore di handicap di vivere la sua vita "qui ed ora".
È vero - come disse anche l'on. Formigoni, qualche anno fa, al
Circolo della Stampa di Milano, in occasione della presentazione di uno
spot contro le barriere architettoniche - che le barriere più grandi
le abbiamo nella testa, ma è anche vero, come gli replicai io,
che ci sono tanti problemi pratici. Potrei fare mille esempi. Se sulla
patente o sulla carta d'identità, per facilitarmi, sta scritto
"professione invalido", perché pago l'IVA come uno sano?
Le facilitazioni, quando ci sono - come la riduzione delle tasse o l'assegno
di accompagnamento - sono solo apparenti: sulla macchina pago il 4% anziché
il 20% ma poi il cambio automatico e i comandi manuali costano diversi
milioni... In Inghilterra, in Francia le leggi a favore dell'handicap
sono anche meno che in Italia, dove ce ne sono a quintali ma non servono
a niente, solo ad essere contravvenute, in particolare al Sud, dove il
senso della legalità è più scarso».
Ma
parliamo anche della tua esperienza musicale...
«Quando
ero piccolo non avevamo neanche la radio. Questo non mi impedì
di innamorarmi della musica di Frank Sinatra. Quando avevo 18/19 anni
mio fratello cominciò a suonare in casa con il suo complesso: scoprii
la batteria, il basso, il coro. Mi avevano regalato un giradischi, comprai
tanti dischi.
A
23 anni mi diedero una vecchia chitarra, nel giro di un anno scrivevo
canzoni, su quaderni dei quali ne conservo ancora un paio. Cantavo per
gli amici, le mie canzoni piacevano, e poco alla volta, in quasi dieci
anni, presi coraggio. Anche se spesso mi dicevano che in Italia per un
handicappato non c'era spazio, che contavano solo la perfezione fisica,
la bellezza, il look... Per fortuna io ero cantautore e il cantautore,
come mi disse il produttore discografico Sugar, è il personaggio
di quanto scrive. Così mi sono trovato a fare il mestiere della
musica, con 225 canzoni scritte e incise. In questo mondo più che
il talento oggi contano la pubblicità, la promozione, la casa discografica,
i rapporti con la radio, la tv: niente succede gratis. I dischi, grazie
alla tecnologia, si possono realizzare con pochi soldi ma la pubblicità
costa anche 20 volte di più che ieri. Poi ci sono gli sponsor e
tutto il resto...».
Dopo
quasi trent'anni nel mondo della musica (con due partecipazioni a San
Remo, cinque al premio "Tenco" e varie presenze nei maggiori
talk-show televisivi) Bertoli non è ancora un integrato, come si
diceva una volta, non si è mai fatto chiudere in un clichè,
in giri di parole vuote ripetute per correre dietro al successo di cassetta,
alle più facili mode. Resta il cantautore ostinato che è
sempre stato, poeta e musicista originale, nel rispetto di se stesso e
degli altri. La musica può essere ancora strumento di riscatto,
di liberazione?
«Una
volta i suonatori (come i pugili o i calciatori) venivano dal mondo del
lavoro, della fatica, anche della miseria. Oggi cantanti e cantautori
non sono più poveri o poverissimi, sono laureati e la musica non
è riscatto. Le motivazioni sono diverse: può essere un modo
più facile per avvicinare le donne ("Il palco fa più
bello"...) oppure - come per mio figlio, che fa il rocker - un modo
per demassificarsi, terminologia degli anni '60, oggi più attuale
che mai. Il dio denaro sembra comunque l'unico per cui la gente è
disposta a sacrificarsi. Credo che di tutto Marx almeno una frase, che
cito a memoria, vada salvata: "Fino ad oggi ho creduto che fossero
le leggi a determinare le religioni, l'economia. È invece il contrario».
Come
si vede, aveva ragione Sugar: il cantautore è già il personaggio
di quanto scrive. E anche Bertoli ha ragione a chiudere i suoi concerti
cantando a "Muso duro", senza rischiare l'ipocrisia opportunistica
o l'appropriazione indebita di un ruolo.
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