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Le Bielle interviste

Marco Ongaro, canzoni al di là del tempo
di Antonio Piccolo

La quarta serata della rassegna diretta dal Club Tenco, "Cantautori in villa" (Villa Campolieto, ad Ercolano dall'8 al 15 luglio), nell'ambito del 18° Festival delle Ville Vesuviane si divide in due brevi concerti singoli: del primo è protagonista Marco Ongaro, che suona in quartetto (diretto dal clarinettista e sassofonista Marco Pasetto). Gironzolando sul palco e chiamato da Enrico De Angelis, raddoppia la sua solita gentilezza sentendosi chiedere se può concedere un'intervista a Bielle, che proprio in questi giorni ospita una splendida recensione scritta da Alessio Lega su "Archivio Postumia", l'ultimo album suo album. Ultimo in ordine di pubblicazione, ma non di registrazione, come ci racconta.

È uscito da poco il tuo nuovo cd che si chiama…
Si chiama “Archivio Postumia”

E come ci ha detto Enrico De Angelis ha una storia particolare perché lo hai registrato parecchio tempo fa: com’è andata la storia?
L’ho registrato nel ’90 e quell’anno usciva un mio disco che era “Sono bello dentro”. Però, in realtà, avevo un distacco totale da come l’industria voleva propormi a livello di arrangiamenti e così via: le canzoni sono sempre state “vecchie” rispetto a quando pubblicavo i dischi, per cui mi ero definito “il primo cantautore postumo ancora in vita”, già allora. Per cui, con un gruppo di jazzisti, ho registrato le canzoni che stavo scrivendo in quel momento con il suono che ottenevo in quel momento, con l’accordo con il produttore Renato Venturiero di pubblicarlo non prima di cinque anni. Gli ho detto: “Guarda, io lo faccio adesso perché voglio fermarlo così com’è, perché tra cinque anni chissà come lo facciamo”. Dopodichè, l’anno dopo, abbiamo inciso un altro disco con un altro jazzista che è Cicci Santucci e ha arrangiato delle altre canzoni che, però, neanche quelle sono uscite: sono andate a unirsi a questo “Archivio Postumia” e sono passati quindici anni invece di cinque. Si chiamava “Postumia” proprio con l’idea di pubblicare qualcosa, intenzionalmente, di inciso in precedenza, come un qualcosa che sarebbe uscito dopo la morte! In realtà, si scherzava su questo. Si scherzava, purtroppo Venturiero è morto, ad esempio, però prima l’ha mandato alle stampe. L’ultima cosa che il produttore mi ha detto per telefono è stata: “il disco è in stampa”. Quindi, dopo quindici anni esce questa cosa. Sto ricevendo delle recensioni strepitose: quella di Alessio Lega su Bielle è un’esegesi, non è una recensione! Poi un’altra da un certo Giacomino Ricci di Radio Voce Camuna che parla di una cosa bizzarra: sembra che le tendenze e le mode di adesso vadano verso il suono che avevo inciso nel ’90, per cui mi sono trovato a fare il precursore quando pensavo di fare il postumo!

Ecco, a questa cosa tengo molto: a volte, i discografici - specialmente quelli delle grandi case discografiche - sembrano un po’ ottusi, perché cercano sempre la canzone alla moda, orecchiabile…
Sì, io da questo punto di vista sono condannato! C’è stato un periodo in cui speravano davvero di farmi fare successo di grosso pubblico, per cui vestivano le mie canzoni in modo inadatto, secondo me…

A livello di arrangiamenti?
Sì, proprio con dei suoni da tastiera che diventano obsoleti immediatamente. Invece, la sfida di questo disco era dimostrare che se tu prendi degli strumenti veri - ed eravamo nel ’90, quindi erano appena finiti gli anni ’80 in cui gli strumenti veri erano una cosa obsoleta e nessuno li voleva usare -, prendi un sassofono sarà un sassofono anche fra quindici anni! Un contrabbasso sarà un contrabbasso! La batteria è minimalista: è solo il rullante con le spazzole, anche stasera. Lì c’è una batteria che ha fatto dei suoni strepitosi, il mio batterista è imbarazzato perché dice: “dovrò chiedere che abbassino il volume!”. Siamo a questo livello!

Sì, perché poi quello che è alla moda dopo qualche anno diventa anacronistico, mi sembra. Puoi aver successo in qualche momento, ma dopo qualche anno si esaurisce la validità.
Esatto: un artista che cerca di seguire la moda è perduto. Assolutamente perduto. O sa vendersi bene e ha un giusto contratto con il diavolo. Però io ho sempre pensato che per fare un contratto con il diavolo - una cosa che farei anche subito - bisogna che il diavolo sia lì con un forziere spalancato e mi fa vedere quello che mi dà in cambio. Io non ho mai visto niente che mi sarebbe stato dato in cambio, l’unica cosa era l’integrità di queste canzoni. Io ci tenevo che queste canzoni uscissero così. C’hanno messo quindici anni: sono felice di essere ancora vivo a parlarne.

Quindi c’è stato un doppio lavoro di arrangiamenti? Uno del ’90 e uno successivo di cinque anni?
No, no, il successivo - “Eptalogia”, che va nello stesso disco - era del ’91: son due dischi in uno, in realtà. È stato nella primavera successiva: due jazzisti diversi. Il secondo, essendo il trombettista dell’orchestra della Rai, in qualche modo aveva ancora l’impulso di rendermi “al passo coi tempi” e ha sbagliato: in effetti, la sua parte del disco è quella più datata perché, che so, ha cercato dei suoni di batteria, ha messo qualche tastiera, cosa che non avevo pensato di fare in “Archivio Postumia”, che ha ancora adesso un impatto strepitoso. L’altro è ben suonato, ci sono dei fior di jazzisti, però non ha la stessa forza dell’integrità, il che dimostra tutto. Se tu metti un disco jazz, adesso, non c’è una questione di moda.

Infatti la difficoltà delle case discografiche - come dicevamo - sembra proprio quella di riuscire a fare un disco senza tempo, con le dovute eccezioni.
Poi esistono, prendiamo i Pink Floyd: loro usavano le tastiere, però le loro tastiere sono ancora senza tempo, perché non c’era la ricerca del nuovo suono appena fatto da un giapponese! C’era un Hammond, cambiato magari, ma l’Hammond è un classico: è come un organo di Bach, tu puoi usarlo sempre e non cambierà mai. Tu ascolti “Atom heart mother”: è ancora perfetto! Ma perché? A parte il fatto che c’è un’intera orchestra - ottoni, violini, corni straordinari - suona ancora come allora: senti forse che adesso il rullante sarebbe stato equalizzato in modo diverso, però è comunque un rullante ripreso da un microfono, fine! La batteria elettronica è stata una rovina: va benissimo per la musica da discoteca, ma in un mese è passato il suo suono! Quindi io compiango i poveretti che devono lottare ogni giorno nell’ambito commerciale, perché non possono starci dietro oppure sono bravissimi. Quelli che invece fanno la moda sono pochi, ma ci riescono e diventano classici. Ma non è un discorso commerciale. Prendiamo il disco di Paul Simon fatto in Sudafrica, che suona ancora benissimo. Però cosa ha fatto? Ha preso i suoni della musica sudafricana con i neri che cantano, le chitarre come le suonano loro: allora va bene, lì hai preso una cultura.

Tu sei stato al Club Tenco più volte.
Sì, ci sono stato tre volte: la prima volta era nell’ ’82 e ci sono andato come inedito; nell’ ’87 e ho vinto la targa come migliore opera prima (e considera che per i due anni precedenti non è stata assegnata perché non ce n’erano di meritevoli); l’ultima volta nel 2003.

Il Club Tenco sembra essere un luogo dove si dà spazio a quella musica senza tempo.
Sì, il Club Tenco forse è l’unico che ha resistito, pur essendo moderno, però ha un occhio verso una modernità che è classica e che quindi resiste nel tempo. Questo secondo il mio parere, forse gente di altre rassegne la penserà diversamente.

Concludiamo con una domanda originale: sei in tournée adesso?
Sì, in realtà è tutta la settimana che giro! Faccio tante cose: ieri sera c’era un’opera lirica (“Il cuoco fellone”, n.d.r.) di cui ho scritto il libretto, che è andata in scena a Desenzano del Garda; giovedì ero a Genova, in una rassegna con Max Manfredi; poi scrivo per il teatro. Diversifico moltissimo. È vero che sono in tournée, però non è detto che sia in tournée con le canzoni: ci sono due spettacoli che vanno in scena in Trentino nei prossimi due week-end, quindi sarò lì come autore.

Ultimo aggiornamento: 12-07-2005
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