La quarta serata della rassegna diretta dal Club Tenco,
"Cantautori in villa" (Villa Campolieto, ad Ercolano
dall'8 al 15 luglio), nell'ambito del 18° Festival
delle Ville Vesuviane si divide in due brevi concerti
singoli: del primo è protagonista Marco Ongaro, che
suona in quartetto (diretto dal clarinettista e sassofonista
Marco Pasetto). Gironzolando sul palco e chiamato
da Enrico De Angelis, raddoppia la sua solita gentilezza
sentendosi chiedere se può concedere un'intervista
a Bielle, che proprio in questi giorni ospita una
splendida recensione
scritta da Alessio Lega su "Archivio Postumia", l'ultimo
album suo album. Ultimo in ordine di pubblicazione,
ma non di registrazione, come ci racconta.
È
uscito da poco il tuo nuovo cd che si chiama…
Si chiama “Archivio Postumia”
E come ci ha detto Enrico De
Angelis ha una storia particolare perché lo
hai registrato parecchio tempo fa: com’è
andata la storia?
L’ho registrato nel ’90 e quell’anno
usciva un mio disco che era “Sono bello
dentro”. Però, in realtà,
avevo un distacco totale da come l’industria
voleva propormi a livello di arrangiamenti e così
via: le canzoni sono sempre state “vecchie”
rispetto a quando pubblicavo i dischi, per cui mi
ero definito “il primo cantautore postumo ancora
in vita”, già allora. Per cui, con un
gruppo di jazzisti, ho registrato le canzoni che stavo
scrivendo in quel momento con il suono che ottenevo
in quel momento, con l’accordo con il produttore
Renato Venturiero di pubblicarlo
non prima di cinque anni. Gli ho detto: “Guarda,
io lo faccio adesso perché voglio fermarlo
così com’è, perché tra
cinque anni chissà come lo facciamo”.
Dopodichè, l’anno dopo, abbiamo inciso
un altro disco con un altro jazzista che è
Cicci Santucci e ha arrangiato delle
altre canzoni che, però, neanche quelle sono
uscite: sono andate a unirsi a questo “Archivio
Postumia” e sono passati quindici anni invece
di cinque. Si chiamava “Postumia” proprio
con l’idea di pubblicare qualcosa, intenzionalmente,
di inciso in precedenza, come un qualcosa che sarebbe
uscito dopo la morte! In realtà, si scherzava
su questo. Si scherzava, purtroppo Venturiero è
morto, ad esempio, però prima l’ha mandato
alle stampe. L’ultima cosa che il produttore
mi ha detto per telefono è stata: “il
disco è in stampa”. Quindi, dopo quindici
anni esce questa cosa. Sto ricevendo delle recensioni
strepitose: quella di Alessio
Lega su Bielle è un’esegesi, non
è una recensione! Poi un’altra da un
certo Giacomino
Ricci di Radio Voce Camuna che parla di una cosa
bizzarra: sembra che le tendenze e le mode di adesso
vadano verso il suono che avevo inciso nel ’90,
per cui mi sono trovato a fare il precursore quando
pensavo di fare il postumo!
Ecco, a questa cosa tengo molto:
a volte, i discografici - specialmente quelli delle
grandi case discografiche - sembrano un po’
ottusi, perché cercano sempre la canzone alla
moda, orecchiabile…
Sì, io da questo punto di vista sono
condannato! C’è stato un periodo in cui
speravano davvero di farmi fare successo di grosso
pubblico, per cui vestivano le mie canzoni in modo
inadatto, secondo me…
A livello di arrangiamenti?
Sì, proprio con dei suoni da tastiera
che diventano obsoleti immediatamente. Invece, la
sfida di questo disco era dimostrare che se tu prendi
degli strumenti veri - ed eravamo nel ’90, quindi
erano appena finiti gli anni ’80 in cui gli
strumenti veri erano una cosa obsoleta e nessuno li
voleva usare -, prendi un sassofono sarà un
sassofono anche fra quindici anni! Un contrabbasso
sarà un contrabbasso! La batteria è
minimalista: è solo il rullante con le spazzole,
anche stasera. Lì c’è una batteria
che ha fatto dei suoni strepitosi, il mio batterista
è imbarazzato perché dice: “dovrò
chiedere che abbassino il volume!”. Siamo a
questo livello!
Sì,
perché poi quello che è alla moda dopo
qualche anno diventa anacronistico, mi sembra. Puoi
aver successo in qualche momento, ma dopo qualche
anno si esaurisce la validità.
Esatto: un artista che cerca di seguire la
moda è perduto. Assolutamente perduto. O sa
vendersi bene e ha un giusto contratto con il diavolo.
Però io ho sempre pensato che per fare un contratto
con il diavolo - una cosa che farei anche subito -
bisogna che il diavolo sia lì con un forziere
spalancato e mi fa vedere quello che mi dà
in cambio. Io non ho mai visto niente che mi sarebbe
stato dato in cambio, l’unica cosa era l’integrità
di queste canzoni. Io ci tenevo che queste canzoni
uscissero così. C’hanno messo quindici
anni: sono felice di essere ancora vivo a parlarne.
Quindi c’è stato
un doppio lavoro di arrangiamenti? Uno del ’90
e uno successivo di cinque anni?
No, no, il successivo - “Eptalogia”,
che va nello stesso disco - era del ’91: son
due dischi in uno, in realtà. È stato
nella primavera successiva: due jazzisti diversi.
Il secondo, essendo il trombettista dell’orchestra
della Rai, in qualche modo aveva ancora l’impulso
di rendermi “al passo coi tempi” e ha
sbagliato: in effetti, la sua parte del disco è
quella più datata perché, che so, ha
cercato dei suoni di batteria, ha messo qualche tastiera,
cosa che non avevo pensato di fare in “Archivio
Postumia”, che ha ancora adesso un impatto strepitoso.
L’altro è ben suonato, ci sono dei fior
di jazzisti, però non ha la stessa forza dell’integrità,
il che dimostra tutto. Se tu metti un disco jazz,
adesso, non c’è una questione di moda.
Infatti la difficoltà
delle case discografiche - come dicevamo - sembra
proprio quella di riuscire a fare un disco senza tempo,
con le dovute eccezioni.
Poi esistono, prendiamo i Pink Floyd:
loro usavano le tastiere, però le loro tastiere
sono ancora senza tempo, perché non c’era
la ricerca del nuovo suono appena fatto da un giapponese!
C’era un Hammond, cambiato magari, ma l’Hammond
è un classico: è come un organo di Bach,
tu puoi usarlo sempre e non cambierà mai. Tu
ascolti “Atom heart mother”:
è ancora perfetto! Ma perché? A parte
il fatto che c’è un’intera orchestra
- ottoni, violini, corni straordinari - suona ancora
come allora: senti forse che adesso il rullante sarebbe
stato equalizzato in modo diverso, però è
comunque un rullante ripreso da un microfono, fine!
La batteria elettronica è stata una rovina:
va benissimo per la musica da discoteca, ma in un
mese è passato il suo suono! Quindi io compiango
i poveretti che devono lottare ogni giorno nell’ambito
commerciale, perché non possono starci dietro
oppure sono bravissimi. Quelli che invece fanno la
moda sono pochi, ma ci riescono e diventano classici.
Ma non è un discorso commerciale. Prendiamo
il disco di Paul Simon fatto in Sudafrica,
che suona ancora benissimo. Però cosa ha fatto?
Ha preso i suoni della musica sudafricana con i neri
che cantano, le chitarre come le suonano loro: allora
va bene, lì hai preso una cultura.
Tu sei stato al Club Tenco più volte.
Sì, ci sono stato tre volte: la prima volta
era nell’ ’82 e ci sono andato come inedito;
nell’ ’87 e ho vinto la targa come migliore
opera prima (e considera che per i due anni precedenti
non è stata assegnata perché non ce
n’erano di meritevoli); l’ultima volta
nel 2003.
Il Club Tenco sembra essere
un luogo dove si dà spazio a quella musica
senza tempo.
Sì, il Club Tenco forse è l’unico
che ha resistito, pur essendo moderno, però
ha un occhio verso una modernità che è
classica e che quindi resiste nel tempo. Questo secondo
il mio parere, forse gente di altre rassegne la penserà
diversamente.
Concludiamo con una domanda
originale: sei in tournée adesso?
Sì, in realtà è tutta
la settimana che giro! Faccio tante cose: ieri sera
c’era un’opera lirica (“Il
cuoco fellone”, n.d.r.) di cui ho scritto
il libretto, che è andata in scena a Desenzano
del Garda; giovedì ero a Genova, in una rassegna
con Max Manfredi; poi scrivo per
il teatro. Diversifico moltissimo. È vero che
sono in tournée, però non è detto
che sia in tournée con le canzoni: ci sono
due spettacoli che vanno in scena in Trentino nei
prossimi due week-end, quindi sarò lì
come autore.