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BiELLE INTERVISTE
Luca Nesti: un artigiano non omologato
di Giorgio Maimone

Luca Nesti è un cantautore con solo due dischi all'attivo, ma una militanza ventennale nel campo della musica. Esperienza soprattutto di studio di registrazione, all'interno della musica "ufficiale", prima di decidersi a dare un calcio al tutto e a ricominciare "cercando di andare tanto indietro da trovarmi avanti". Da qualche anno ha iniziato un'attività di operatore culturale, diventando l'anima di almeno un paio di festival estivi ("Una casa per Rino" a Crotone e "Moon Tale Festival" a Montale, vicino a Pistoia). E questa primavera è uscito con un cd che lo porta dritto nel cielo dei cantautori. Un rock grintoso che sa di Ligabue o di Graziano Romani e se vogliamo esagerare citiamo pure Springsteen. Blue-collar senza esserlo, ma viscerale e intenso, al servizio di testi interessanti.

Sentiamo Luca all'inizio dell'estate, prima dell'inizio dei Festival ("ma quest'anno per "Una casa per Rino" spira una brutta aria...") e della tourneé per la promozione del disco. E' stata un'intervista ricca di risate e di humor, un contatto piacevole e interessante. Attacca lui:

Prima di tutto ti ringrazio, perché ho letto la tua recensione …

… ma figurati

… anche troppo, eh? (Ride) Bellissima, hai toccato delle corde che mi hanno fatto stare bene. Dei riferimenti che … beh, insomma, da brividi.

Guarda a me il disco è piaciuto molto e dicevo anche nella recensione, al di là di quanto riesca a capire, proprio di pelle. Ho respirato un’aria di sincerità globale.

Ma sai, abbiamo abbattuto delle barriere. Come sai io vengo da un ambiente piuttosto “istituzionale” nel campo della musica che ho lasciato proprio perché non ne potevo più. Ma non per snobismo o per presunzione, ma perché non mi divertiva più fare musica e allora …

A quel punto hai detto “Ho cambiato idea”, no? (Ridiamo)

Dovrei cercare di capire meglio cosa e quanto mi piace di questo disco, ma credo occorrerà tempo. Certo, tutto quanto è a posto: testi, musiche, temi. Ma "il piacere" è qualcosa in più, una sensazione chimica che non sempre si riesce a spiegare con i termini normali delle categorie razionali. Una componente "chimica" è di sicuro la voce e la voce di Luca Nesti è graffiante, scura il giusto, espressiva e calda. (segue)

Infatti! Qua è un paesino di provincia e questa casa che abbiamo utilizzato per incidere il disco era ferma da diversi anni. L’energia elettrica l’abbiamo portata con un generatore. E abbiamo creato una “bella isola”, tra virgolette.

In un’intervista che mi hai rilasciato lo scorso anno per il Moon Tale Festival mi avevi detto che il disco è stato praticamente registrato in presa diretta. Come fosse un concerto dal vivo.

Sì, abbiamo utilizzato un sistema che utilizzavano le vere “band rock”, senza voler toccare grandi nomi, che prendevano questi alberghi stagionali chiusi e montavano una sorta di studio di registrazione. Dopo di che suonavano 10-15 volte lo stesso brano per poi scegliere la miglior versione. Ecco, abbiamo tentato di fare questo mettendo a casa il computer in fuzione nostra per la comodità, più che stare lì a interagire con il computer della mattina alla sera per cacciare un suono. E questo ci ha divertito tanto e mi ha ripreso la voglia di suonare.

E’ rimasto fuori del materiale dal disco o hai messo tutto quello che avevi?

Sono state fatte 35 canzoni di cui dieci vergognose col senno di poi (ridiamo). Guarda, un giorno per far capire quanto è difficile fare un disco le farò sentire! Erano o troppo di maniera o troppo cercate. Quindi alla fine abbiamo scelto i brani più sinceri, che paradossalmente sono quelli dove sono stati scritti prima i testi e le musiche sono andate a vestire i testi. Infatti se ci fai caso le strutture non sono “quadratissime”. Per comprendere una parola, una frase in più ce ne siamo fregati della struttura canonica, le otto misure poi bisogna andare a capo. Il problema ce l’ha avuto il trascrittore delle musiche per depositare i brani alla SIAE (ridiamo). E’ andato in manicomio, giuro!

Senti, tu che tipo di cantautore ti ritieni? Chi sono i tuoi riferimenti più immediati?

Riferimenti e ispirazioni sono coloro che sono definiti i “mostri sacri”. Se parliamo di italiano ci sono i vecchi cantautori che li prenderei un po’ tutti, perché se vai a leggere tra i cantautori ci sono personaggi che magari non hanno fatto successo, ma hanno scritto delle cose straordinarie. Tra i quali io mi ricordo di un disco bellissimo di Renzo Zenobi oppure, e non voglio fare piaggeria, ma c’è un signore che si chiama Claudio Lolli che legge e canta con un libro aperto in mano ed è strepitoso. Poi … che dire? Fossati forse su tutti, perché è forse il personaggio a mio modo di vedere che ha saputo più rinnovarsi, pur rimanendo sé stesso. Anche andando in alcuni casi verso la tradizione folk, ma rinnovando il proprio modo di proporre musica. Quasi tornando indietro per spiccare il salto. È tornato così indietro che quasi è andato avanti. Anche l’ultimo disco di De Gregori trovo molto bello e interessante. Ci sono dischi di cantautori che non mi hanno fatto impazzire, ma su quelli di Fossati trovo sempre qualcosa di interessante, se non altro nei linguaggi, nel modo di descrivere le cose. Andando fuori dal confini, io ho incominciato a fare questo mestiere ascoltando “Foxtrot” dei Genesis che trovavo perfetto e credo che ancora oggi sia “la madre di tutti gli arrangiamenti rock”, perché se lo ascolti con attenzione vi trovi ancora delle cose da scoprire. Poi le citazioni sono le solite: da Bruce Springsteen a quanto altro. Stiamo parlando di cose stellari!

Ma andiamo avanti con le cose gigantesche, perché tu hai fatto anche un recital sui poeti, no? Quelli con la P maiuscola. Musiche abbinate a poesie … anche da lì pensi di avere assorbito qualcosa, di avere tratto stimoli? Ho visto ad esempio una citazione da Bukowski nel tuo disco.

Sì, guarda, io ho avuto questa fortuna di musicare tutte le poesie inedite di Bukowski, le traduzioni intendo. Le hanno tradotte un gruppo di ricercatori fiorentini che hanno fatto una selezione su tutte le cose non tradotte sue ed hanno avuto la concessione di poterlo fare. Passando dai concerti nei club di una certa energia, dove i muscoli sono quasi più importanti di tutto il resto, ho avuto invece l’occasione di capire che la riflessione è più importante. Il catturare l’espressione … una frase … questo ti cambia il modo di pensare, perché ti viene da sorridere, ti emozioni con una semplice espressione letteraria oppure facciale ed è chiaro che ti incide. Ti viene da pensare: ma scusa c’è anche questo mezzo per comunicare! Non importa per forza usare i muscoli, ma si possono usare le mezze tinte. Idem per le colonne sonore. Sono due paradossi che arrivano allo stesso concetto. Nella colonna sonora dove la parte letteraria non esiste, l’emotività deve venire dalle singola nota che riesci a colorare in un certo qual modo … o almeno hai l’illusione di farlo (ride). Nelle poesie invece è la singola parola che conta.

Parlando dei tuoi testi: Chiara, Mara, Giulia, Alice, io non mi innamoro mai … etc etc … Insomma, hai un bel rapporto conflittuale con le donne?

Sì, perché non mi riesce! (Ridiamo) In realtà non vorrei si pensasse … te lo dico in toscano … che io sia un “ganzo”! In realtà ho delle difficoltà proprio di comunicazione e allora uno si appella a certe cose. Scusa se rido, ma mi fai delle domande che proprio mi divertono.

No, insomma, ero incuriosito anch’io da queste vicende …

Il concetto è questo. Almeno quello che ho capito io del rapporto di coppia: uno dei due deve cedere in un certo qual modo, quindi deve snaturare una ricca parte di se stesso, costruita magari anche con fatica. E’ molto difficile trovare un rapporto dove ognuno può essere se stesso. Sono cose che non esistono nemmeno più nelle favole. Che poi sono andato a scoprire, diventando grande, che erano cattivissime! (altre risate). Non sono come facessero a piacerci da bambino! Forse era per come ce le raccontavano? Con tutta la dolcezza dei genitori. Comunque, tornando ai rapporti, questo ti porta a situazioni in cui … è come se, dopo tre mesi, una volta acquisito sia il maschio che la femmina, cambiasse il mondo totale. E questo a me dà fastidio e crea qualche problema. E’ la situazione che ho cercato di descrivere. Cioè, il concetto di “Io non mi innamoro” è: “porca miseria, fatemi innamorare!” (ridiamo).

E potresti andare in giro con questo biglietto da visita: se qualcuna fosse interessata … lanciamo un appello …

Potrebbe essere, sì (ma ovviamente si ride - NdR).

Cambiando argomento, ho letto sul tuo sito il racconto molto bello con cui spieghi cosa c’è sotto alla canzone “Il politico perfetto”, quando racconti di tuo padre e del suo impegno in politica per il partito. Il politico perfetto quindi non è una figura precisa, no?

No, ci sono delle indicazioni su un certo tipo di personaggio politico, quello che ha trasformato, tra virgolette, la politica in “un’industria”. Colui che si chiama (oggi si usa dirlo no?) un “imprenditore della politica”. Ora, io conosco gli imprenditori del tonno, quelli delle biglie, quelli delle scarpe, qualcosa del genere, ma il concetto di politica, almeno come lo penso io e forse come lo pensano tutti quelli che devono subire la politica, è un po’ diverso! Dovrebbe derivare dal concetto di pensare alla popolazione. Questo io non lo vedo più. Sento dei grandi spot, mi sembra che il politico debba essere vestito per forza in un certo modo, debba rappresentare un certo tipo di cose che non so quanto siano vicine alle persone comuni o perlomeno a quello che hanno una difficoltà oggettiva a sbarcare il lunario. Allora questa situazione credo che ci abbia portato un po’ tutti ad allontanarci dalla politica, ma sbagliando, perché fondamentalmente la politica siamo noi. Quando facevamo le prove del disco ad esempio, nessuno voleva parlare di politica. Tutti la pensiamo più o meno allo stesso modo in questa band. Ma litigavamo! Fortemente! Alla prima notizia di politica del telegiornale! In realtà non abbiamo mai parlato di musica, fuori dalla sala prove (ridiamo). E allora ho portato questa canzone. Mio padre è morto in sezione, a una riunione del partito, perché dovevano rifare il circolo e non potevano rimandarlo. Ecco, questa era forse l’esagerazione della politica di un tempo, ma adesso c’è troppa leggerezza!

Comunque la descrizione che hai messo sul sito rende molto bene l’idea e il clima di allora. E’ quasi come se fosse un’altra canzone aggiunta. Invece “Lettera alla fine del mondo” è l’unica canzone del lotto, mi sembra almeno, dove parli di un argomento completamente fuori da te. Da dove è venuto lo spunto? Mentre negli altri brani racconti il tuo mondo e le tue reazioni al mondo, questa canzone è proprio la trama di un racconto.

Lo spunto è nato da questo: onestamente personale, ma incatenato con altri avvenimenti. Ci sono delle guerre civili in Africa che sono pazzesche, di cui non si parla mai, ma insomma sono veramente tremende. Sentivo l’esigenza di scrivere qualcosa su questo tema, ma, te lo dico molto onestamente, non volevo fare lo “sciacallo” che racconta un evento solo perché è successo e se ne parla e per far dire “guarda che bravo lui che ha parlato di queste cose”. Non ho fatto altro allora che mischiare le carte: camminavo per Firenze di notte e ho assistito a una discussione potente, fino al punto di dovere andare a dividerli, tra un ragazzo nero e probabilmente la sua moglie, la sua donna, la sua compagna … non so come definirla, che batteva. E lì sopra ci ho costruito tutta una serie di cose: ho pensato che magari questo era venuto qua pensando chissà che cosa e poteva invece essere rimasto in Africa o nelle terre colpite dello Tsunami o a combattere una guerra … La differenza era che … ti ricordi le prime immagini che ci hanno mostrato dello Tsunami? I soldati che scendevano col fucile! E io ho pensato: “ma perché non scendono coi secchi, piuttosto che coi fucili!” Ecco da tutta questa serie di pensieri, pensando che questo arriva in Italia pensando di rifarsi una vita e invece è costretto a mandare la moglie a battere, mi ha fatto arrivare a scrivere questo testo che è da un lato la descrizione di una attualità “confusa”, volutamente confusa, proprio per il motivo di cui ti ho parlato all’inizio, di non voler sembrare uno sciacallo che specula sulle grandi tragedie. Insomma il senso è che ci sono delle guerre che non si possono combattere con le armi! Questa è la cosa principale. E all’interno di tutte le guerre ci sono delle microstorie che nessuno racconta e che sono molto semplici. Il fatto che lui scriva tutti i giorni una lettera e che non ci sia un ufficio postale per spedirla (è raccontato nella canzone – ndr) per me è più significativa dell’arma moderna che ti fanno vedere in televisione.

Comunque si capiva subito che non si trattava di una storia tua, perché iniziava dicendo “questa è la storia di un uomo innamorato” e tu non ti innamori, quindi … (ridiamo). Facciamo un salto indietro. “L’artigiano”, il tuo primo disco, io non l’ho sentito. Era molto diverso da questo? E’ cambiato qualcosa?

Sì, era un disco più cerebrale. Era il disco che arrivava l’anno dopo la fuoriuscita da questo gruppo di lavoro che ha portato tanti successi nel campo della musica pop. E quindi era in un certo qual modo la voglia di liberazione da tutto questo, la differenziazione tra l’artista e l’artigiano deriva dal fatto che io non credo molto al concetto di “artista”. Bene o male, stando in Toscana, qui c’erano davvero gli artisti! Oggi siamo tutti un po’ artigiani e costruiamo bene certe cose che possono toccare punte di arte, ma col nostro computer in casa si è riformata in un certo modo, almeno nell’arte-spettacolo la forma della fantasia. “L’artigiano” era quindi il disco, permettimi il termine, di uno che voleva combattere contro “una certa forma di depressione” da fuoriuscita dalla serie A e in un certo qual modo dire che si può anche uscire e vivere bene in un altro modo. Un disco molto più chiuso, se vuoi.

Ho visto anche che la formazione da allora a oggi è completamente diversa: là c’era un violino, un rapper e qui invece basso, chitarra e batteria.

Sì, perché anche lì c’entra il titolo “Ho cambiato idea”. Io, per dirti, sono stato uno tra i primi negli arrangiamenti ad utilizzare il computer negli anni ‘85/86 quando era ancora un tabù e ho lavorato tanto negli studi con questo uso del computer. Tutto questo secondo me portava o ha portato negli anni a omologare tutti i prodotti in Italia. Nel senso che è molto difficile riconoscere un prodotto dall’altro, riconoscere chi lo fa. Questo concetto di omologazione mi ha fatto venir voglia di tornare indietro fino all’origine, cercando di fare qualcosa di riconoscibile. Chiuso in sala prove con tre musicisti, che poi sono i tre con cui ho incominciato con la prima band da ragazzino e poi ci eravamo divisi: il batterista era andato con Biagio Antonacci, il bassista con Raf, il chitarrista si è fatto tutte le band rock italiane, con tutti i furgoni scassati del mondo. Poi c’è stata questa riunione a un autogrill di notte, ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti: “Ci siamo rotti i coglioni di andare a prendere i soldi nelle tournee dove, in qualche modo è come andare nella catena di montaggio in fabbrica”. Da lì è nata questa cosa che … boh … mi piace molto. Poi ci sono degli additivi: sono arrivati un gruppo di archi dal maggio musicale fiorentino, ma insomma questo era quello che volevo fare: cercare di essere il più sinceri possibile. Poi il fatto di riuscirci o meno …

Devo dire che emerge questa sincerità. Poi mi piace molto questo uso della voce che affascina, che narra e fa sembrare ancora più importanti le cose che vengono dette.

Ma credo che sia un cambiamento forte dal disco vecchio. Il disco vecchio tentavo più di fare il “cantantino”. E’ che dopo “Saranno famosi”, “Music farm” etc queste storie del bel canto non mi ci ritrovo. Non condivido questo smaltimento della creatività a funzione dell’omologazione. Non abbiamo cominciato a fare musica per fare questo! Così come penso tu non abbia cominciato a fare giornalismo per pre-confezionare informazione! Può succedere, ma questo è un altro discorso. Comunque uno ci prova.

Andate anche in tournee con questa nuova formazione?

Sì, basiamo molta della promozione sul live, non te lo nascondo. Anche perché noi abbiamo la presunzione che il live suoni come il disco. Essendo fatto in questo modo abbiamo la sensazione che il live rappresenti bene il suono registrato. Le cose si muovono e mi fa piacere. La prima impressione è che il disco sia molto piaciuto agli addetti ai lavori.

Intervista effettuata il 17 maggio 2005

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