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Bonaveri: "La staffetta"
Tra impegno e autonomia, sdegno e poesia. Il pane e le rose
di Alberto Marchetti
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Crediti:
Germano Bonaveri: voce - Mario Arcari: oboe, clarinetto, flauti - Antonello D’Urso: chitarre - Luigi Bruno: tastiere, fisarmonica - Luca De Riso, Giorgio Santisi: basso - Gabriele Palazzi: batteria - Fabrizio Luca: percussioni - Stefano Peretto: batteria in 01 e 03 - Ellade Bandini: batteria in 06 - Lele Veronesi: batteria in 09 - Pietro Beltrani: pianoforte in 09 e 10


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Germano Bonaveri
"La staffetta"

Bma Music - 2015

Tracklist

01 Detonazione
02

Distopia

03 Autodafè
04 25 aprile
05 Guerra
06 La procedura
07 La staffetta
08 Sobibor (Letter from Gaza)
09

L'indomani

10 Alekos
11

Ricordi di figlio

“La Staffetta” è il quinto album di Germano Bonaveri, e, senza nulla togliere all’eccellenza del concept su “Le città invisibili” di Calvino o a “L’ora dell’ombra rossa”, è il suo disco migliore, sintesi perfetta tra impegno e autonomia, sdegno e poesia, pane e rose. E’ un lavoro realizzato attraverso il crowfounding, che sta consentendo oggi la realizzazione di opere necessarie e necessariamente esterne alla rete vincolante del banale mercato musicale.

L’operaio Germano è un attento ricercatore di storie, quelle che valgono, siano esse di eroi universali come Panagulis, come di contadini costretti ad abbandonare il proprio armonico mondo per un conflitto che arriva, storie di chi è costretto a vivere in una realtà che sconcerta e disagia, alienando i luoghi del cuore e alterando quelli salvifici dello spirito.

Primo tema portante è quello della guerra e delle sue molteplici mefitiche espressioni.

Sorprende, a contrasto con “Detonazione” che apre l’album, l’andamento classico, sottolineato dall’evocativo oboe di Arcuri, della dolce e bella “Distopia”, delicata, malinconica, che descrive con lirismo lo sguardo di un uomo sul suo mondo naturale, legato a tempi di opera faticosa e spesso ingenerosa ma comunque vitale, alla tradizione, al duro lavoro quotidiano e all’esperienza dei giorni, che placa il sudore nella pacifica osservazione notturna, un uomo diventato inquieto e costretto a strapparsi via per venti di guerra che travolgono anche quell’angolo pacifico di mondo.

Una chitarra solitaria annuncia che la “Guerra” è in arrivo, a rompere la primavera col rombo di un temporale, e un uomo non può non sentire un rimestio interiore, lì dove gli dèi dei momenti peggiori non danno la pace e dove bisogna conservare angoli di precaria stabilità. Si cita Lupo, il comandante della Brigata partigiana Musolesi, credente e apartitico, capace di contrastare i nazifascisti con grande efficacia sui monti dell’appennino emiliano fino a cadere in una pesante controffensiva delle SS.





Bella nel suo incedere classico “25 Aprile”, introdotta da un insistito al piano, col cantato che ricorda il Vecchioni di un secolo fa, parte che pare un rimprovero a un Dio che manca sempre nei momenti di dolore, e che chiarisce invece l’obiettivo nel classico italiota a vento, capace di cambiare casacca a vantaggio intuito, di defilarsi tra i pericoli per salire sul carro dopo la vittoria. “Come cambiano il giudizio e le opinioni, / come cambia l’orizzonte delle possibilità. / Saper sempre cosa mettere domani / per un posto di potere nella nuova società. / L’importante è screditare i delatori, / far tacere la coscienza e la memoria, / perché in fondo sono sempre i vincitori / quelli che riscrivono la storia".

Sobibor (letter from Gaza)” un campo di concentramento nazista, è il luogo da cui parte questa lettera, che potrebbe partire oggi da Gaza, o dai mille luoghi illiberali di questo tempo e di tutti i tempi uguali che l’uomo ha comunque segnato d’orrore, è introdotta da suoni che rimandano a “Distopia”, a chiudere un cerchio e a negare un ritorno, una lettera pregna di sofferenza e amore, di bellezza contrapposta all’orrore e all’errore, “Ti scrivo un saluto da qui / (c’è così tanto orrore / che vorrei gridare). / Ferocia e bellezza / si confondono in me… / non smetterai mai di aspettare / un tramonto / per vedermi tornare".
Alekos” era il nomignolo del rivoluzionario e poeta greco Panagulis, narrato con amore in “Un Uomo” da una Fallaci brillante prima della fallace ultima fase, appunto un uomo capace, durante la dittatura militare di resistere a torture e a spietate detenzioni, senza perdere mai la visione. Qui in questo brano è già assunto al rango di eroe, come il Che, fino a perdere valenza di pensiero e a diventare icona per decorare una maglietta, e da quei Campi Elisi egli osserva schifato il mondo di oggi (chissà cosa direbbe di un’europa che annienta la sua Grecia esattamente come fece la dittatura tanti anni fa!), mentre “non dimenticarlo mai: / la tua libertà / è decidere che puoi". Segue, ma ne è parte, integrante, la poesia di Panagulis “Tempo di collera” che qui riporto integralmente:

TEMPO DI COLLERA (Alekos Panagulis)
Voi, tombe che camminano
insulti viventi alla vita
assassini del vostro stesso pensiero
manichini antropomorfi

Voi che invidiate le bestie
che offendete l'idea del Creato
che chiedete rifugio all'ignoranza
permettete alla Paura di farvi da guida

Voi che avete dimenticato il Passato
che vedete il Presente con occhi appannati
che non avete interesse per il futuro
che respirate solo per morire

Voi che solo per gli applausi avete mani
e che domani applaudirete
più forte di tutti come sempre
e come ieri, e come oggi

Sappiate allora voi
scuse viventi di ogni tirannia
che i tiranni li odio tanto
quanto ho nausea di voi.

L’altro tema dell’album, che ben si amalgama al primo della guerra, è quello che descrive questi tempi bastardi, dove il conflitto in atto, senza armi, è a danno degli ultimi, sempre più numerosi e annichiliti, asserviti e incapaci di osservare da quale parte gli viene il dolore.

Detonazione” apre l’album, una ritmica invettiva al sistema che non prova più vergogna per le sue degenerazioni, a un capitalismo diventato stato, e allora “Cara e gentile Democrazia, / da quando hai cambiato padrone? / Benvenuta Cleptocrazia, / questo è il tuo vero nome
Autodafè”, cerimonia inquisitoria tipica della sinistra Spagna di Torquemada, è una rivolta linguistica alla banalizzazione imperante, un brano provocatorio ricco di termini aulici e in disuso, lemmi dimenticati eppure espliciti, che costringono al vocabolario, a denunciare la depauperazione di una lingua ricca e stimolante, l’impoverimento del pensiero collettivo, la rinuncia volontaria alla comprensione del mondo.
La pimpante “La Procedura” è l’autoanalisi dello sfruttato, capace di comprendere le catene che lo stringono ma incapace, da solo di una vera rivolta. Alla batteria un gradito Ellade Bandini.

Drammaticamente bella “La Staffetta” a narrare un suicidio che è biografia, un suicidio che è limite alla sopportazione, vite costrette a piani faticosi da percorrere, passi spezzati che non dovevano andare, quotidiano doloroso che costringe alla rinuncia. Ma è staffetta per messaggi di estraneità, bisogno di uscire da logiche insensate “Appesa al muro come rimangono i sogni / quando al risveglio sfumano il riaversi, / tra la falsa emergenza dei nostri bisogni / e la memoria dell’attimo in cui ci siam persi… / Ama, che tutto accade adesso, / non c’e’ nulla di vero, / solo un mondo tracciato col gesso / dal bambino che ero"..
L’Indomani” è il brano della speranza, un sogno che promette un mondo migliore, lo vagheggia, costruendolo però sulla memoria, perché non accada mai più l’orrore di ieri, non si dimentichino le piaghe del passato, si allontani il disagio di oggi.

Una chitarra in solitudine accompagna in chiusura la poetica “Ricordi di figlio”, dal gusto gucciniano, ricca di immagini struggenti, universale anch’essa capace com’è di sondare i fondali pieni di alghe che nascondono in ognuno di noi le distese di cose non dette. “Ho ricordi di figlio, aggrappato a mio padre, / impegnati nel gesto di guadare un fiume / poi, arrivati alla riva, voltarsi a guardare / e sorridere assieme. /Ho rimpianti di uomo, per cose da dire / lasciate a morire per stupido orgoglio, / quelle cose che forse volevi sentire / da questo tuo figlio. / Ogni giorno ho una sponda da conquistare / e un ricordo dolcissimo inciso nel cuore: / qualche volta una riva si lascia toccare, / qualche volta si muore. / Ogni tanto si pensa a qualcosa da dire / e sussurri alla pioggia che bagna le cose / il pudore che un fiume ti possa sentire / e ripenso a mio padre.”

Questo mondo di poche parole e meno pensieri, di poche visioni e nulla poesia, ha bisogno di questi album, soprattutto ora che vengono meno, per raggiunti limiti d’età, i maestri di sempre.
E’ bravo Germano, molto, merita la nostra attenzione e molto, molto di più.



Ultimo aggiornamento: 31-08-2015