“La
Staffetta” è il quinto album di Germano Bonaveri,
e, senza nulla togliere all’eccellenza del concept su “Le
città invisibili” di Calvino o a “L’ora
dell’ombra rossa”, è il suo disco migliore,
sintesi perfetta tra impegno e autonomia, sdegno e poesia, pane
e rose. E’ un lavoro realizzato attraverso il crowfounding,
che sta consentendo oggi la realizzazione di opere necessarie
e necessariamente esterne alla rete vincolante del banale mercato
musicale.
L’operaio
Germano è un attento ricercatore di storie, quelle che
valgono, siano esse di eroi universali come Panagulis, come di
contadini costretti ad abbandonare il proprio armonico mondo per
un conflitto che arriva, storie di chi è costretto a vivere
in una realtà che sconcerta e disagia, alienando i luoghi
del cuore e alterando quelli salvifici dello spirito.
Primo
tema portante è quello della guerra e delle sue molteplici
mefitiche espressioni.
Sorprende, a contrasto con “Detonazione”
che apre l’album, l’andamento classico, sottolineato
dall’evocativo oboe di Arcuri, della dolce e bella “Distopia”,
delicata, malinconica, che descrive con lirismo lo sguardo di un
uomo sul suo mondo naturale, legato a tempi di opera faticosa e
spesso ingenerosa ma comunque vitale, alla tradizione, al duro lavoro
quotidiano e all’esperienza dei giorni, che placa il sudore
nella pacifica osservazione notturna, un uomo diventato inquieto
e costretto a strapparsi via per venti di guerra che travolgono
anche quell’angolo pacifico di mondo.
Una chitarra solitaria annuncia che la “Guerra”
è in arrivo, a rompere la primavera col rombo di un temporale,
e un uomo non può non sentire un rimestio interiore, lì
dove gli dèi dei momenti peggiori non danno la pace e dove
bisogna conservare angoli di precaria stabilità. Si cita
Lupo, il comandante della Brigata partigiana Musolesi, credente
e apartitico, capace di contrastare i nazifascisti con grande efficacia
sui monti dell’appennino emiliano fino a cadere in una pesante
controffensiva delle SS.
Bella nel suo incedere classico “25
Aprile”, introdotta da un insistito al piano,
col cantato che ricorda il Vecchioni di un secolo fa, parte che
pare un rimprovero a un Dio che manca sempre nei momenti di dolore,
e che chiarisce invece l’obiettivo nel classico italiota a
vento, capace di cambiare casacca a vantaggio intuito, di defilarsi
tra i pericoli per salire sul carro dopo la vittoria. “Come
cambiano il giudizio e le opinioni, / come cambia l’orizzonte
delle possibilità. / Saper sempre cosa mettere domani / per
un posto di potere nella nuova società. / L’importante
è screditare i delatori, / far tacere la coscienza e la memoria,
/ perché in fondo sono sempre i vincitori / quelli che riscrivono
la storia".
“Sobibor (letter from Gaza)”
un campo di concentramento nazista, è il luogo da cui parte
questa lettera, che potrebbe partire oggi da Gaza, o dai mille luoghi
illiberali di questo tempo e di tutti i tempi uguali che l’uomo
ha comunque segnato d’orrore, è introdotta da suoni
che rimandano a “Distopia”, a chiudere un cerchio e
a negare un ritorno, una lettera pregna di sofferenza e amore, di
bellezza contrapposta all’orrore e all’errore, “Ti
scrivo un saluto da qui / (c’è così tanto orrore
/ che vorrei gridare). / Ferocia e bellezza / si confondono in me…
/ non smetterai mai di aspettare / un tramonto / per vedermi tornare".
“Alekos” era il nomignolo
del rivoluzionario e poeta greco Panagulis, narrato con amore in
“Un Uomo” da una Fallaci brillante prima della fallace
ultima fase, appunto un uomo capace, durante la dittatura militare
di resistere a torture e a spietate detenzioni, senza perdere mai
la visione. Qui in questo brano è già assunto al rango
di eroe, come il Che, fino a perdere valenza di pensiero e a diventare
icona per decorare una maglietta, e da quei Campi Elisi egli osserva
schifato il mondo di oggi (chissà cosa direbbe di un’europa
che annienta la sua Grecia esattamente come fece la dittatura tanti
anni fa!), mentre “non dimenticarlo mai: / la tua libertà
/ è decidere che puoi". Segue, ma ne è parte,
integrante, la poesia di Panagulis “Tempo di collera”
che qui riporto integralmente:
TEMPO DI COLLERA (Alekos Panagulis) Voi, tombe che camminano
insulti viventi alla vita
assassini del vostro stesso pensiero
manichini antropomorfi
Voi che invidiate le bestie
che offendete l'idea del Creato
che chiedete rifugio all'ignoranza
permettete alla Paura di farvi da guida
Voi che avete dimenticato il Passato
che vedete il Presente con occhi appannati
che non avete interesse per il futuro
che respirate solo per morire
Voi che solo per gli applausi avete mani
e che domani applaudirete
più forte di tutti come sempre
e come ieri, e come oggi
Sappiate allora voi
scuse viventi di ogni tirannia
che i tiranni li odio tanto
quanto ho nausea di voi.
L’altro
tema dell’album, che ben si amalgama al primo della guerra,
è quello che descrive questi tempi bastardi, dove il conflitto
in atto, senza armi, è a danno degli ultimi, sempre più
numerosi e annichiliti, asserviti e incapaci di osservare da quale
parte gli viene il dolore.
“Detonazione” apre l’album,
una ritmica invettiva al sistema che non prova più vergogna
per le sue degenerazioni, a un capitalismo diventato stato, e
allora “Cara e gentile Democrazia, / da quando hai cambiato
padrone? / Benvenuta Cleptocrazia, / questo è il tuo vero
nome”
“Autodafè”, cerimonia
inquisitoria tipica della sinistra Spagna di Torquemada, è
una rivolta linguistica alla banalizzazione imperante, un brano
provocatorio ricco di termini aulici e in disuso, lemmi dimenticati
eppure espliciti, che costringono al vocabolario, a denunciare
la depauperazione di una lingua ricca e stimolante, l’impoverimento
del pensiero collettivo, la rinuncia volontaria alla comprensione
del mondo.
La pimpante “La Procedura”
è l’autoanalisi dello sfruttato, capace di comprendere
le catene che lo stringono ma incapace, da solo di una vera rivolta.
Alla batteria un gradito Ellade Bandini.
Drammaticamente bella “La Staffetta”
a narrare un suicidio che è biografia, un suicidio che
è limite alla sopportazione, vite costrette a piani faticosi
da percorrere, passi spezzati che non dovevano andare, quotidiano
doloroso che costringe alla rinuncia. Ma è staffetta per
messaggi di estraneità, bisogno di uscire da logiche insensate
“Appesa al muro come rimangono i sogni / quando al risveglio
sfumano il riaversi, / tra la falsa emergenza dei nostri bisogni
/ e la memoria dell’attimo in cui ci siam persi… /
Ama, che tutto accade adesso, / non c’e’ nulla di
vero, / solo un mondo tracciato col gesso / dal bambino che ero"..
“L’Indomani” è
il brano della speranza, un sogno che promette un mondo migliore,
lo vagheggia, costruendolo però sulla memoria, perché
non accada mai più l’orrore di ieri, non si dimentichino
le piaghe del passato, si allontani il disagio di oggi.
Una chitarra in solitudine accompagna in chiusura la poetica “Ricordi
di figlio”, dal gusto gucciniano, ricca di
immagini struggenti, universale anch’essa capace com’è
di sondare i fondali pieni di alghe che nascondono in ognuno di
noi le distese di cose non dette. “Ho ricordi di figlio,
aggrappato a mio padre, / impegnati nel gesto di guadare un fiume
/ poi, arrivati alla riva, voltarsi a guardare / e sorridere assieme.
/Ho rimpianti di uomo, per cose da dire / lasciate a morire per
stupido orgoglio, / quelle cose che forse volevi sentire / da
questo tuo figlio. / Ogni giorno ho una sponda da conquistare
/ e un ricordo dolcissimo inciso nel cuore: / qualche volta una
riva si lascia toccare, / qualche volta si muore. / Ogni tanto
si pensa a qualcosa da dire / e sussurri alla pioggia che bagna
le cose / il pudore che un fiume ti possa sentire / e ripenso
a mio padre.”
Questo mondo di poche parole e meno pensieri, di poche visioni
e nulla poesia, ha bisogno di questi album, soprattutto ora che
vengono meno, per raggiunti limiti d’età, i maestri
di sempre.
E’ bravo Germano, molto, merita la nostra attenzione e molto,
molto di più.