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Eugenio Finardi: "Fibrillante"
Il protest-rock ai tempi dei culi stanchi
di Mario Bonanno
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Crediti:
:
Prodotto, arrangiato e mixato da Max Casacci
Co-produzione e supervisione artistica Giovanni: "Giuvazza" Maggiore
Assistenti in studio: Antonio Barra e Gianni Condina
Pre-produzione live registrata da Carlo Miori
Masterizzato da Greg Calbi
Giovanni "Giuvazza" Maggiore: chitarra
Marco Lamagna: basso
Claudio Arfinengo: batteria
Paolo Gambino: tastiere

Artwork e copertina: Studio Convertino & Designers
Foto di copertina: Rudy Amisano De Lespin


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Ascolti: "Lei si illumina"
Presentazione di Fibrillante

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Eugenio Finardi
"Fibrillante"

Universal - 2014
Nei negozi di dischi

Tracklist

01 Aspettando
02

Come Savonarola

03 Lei si illumina
04 Cadere sognare
05 La storia di Franco
06 Fibrillante
07 Le donne piangono in macchina
08 Fortefragile
09

Moderato

10 Me ne vado
Siccome da qualche parte bisogna cominciare, comincio dal contesto finardiano per antonomasia. Comincio dai Settanta del secolo scorso, i Settanta che in fatto di costume & società hanno navigato, bruciato, visto succedere di tutto: dai porci con le ali all’austerity, dai nipotini di Ho Chi Min a Mino Reitano, alle diverse “orde d’oro” (ed altre di piombo) per le strade delle città. I Settanta sono stati un decennio senza mezzi termini, slanci imperiosi e cadute rovinose, come si addice - e si deve - alle stagioni che si stagliano comunque come fulgide, ferro & fuoco, vive.

Mica gli anni ammosciati del millennio con le cifre da fantascienza che stiamo (soprav)vivendo, i giorni dissipati all’insegna di un’afasia presente-futura senza slanci, senza soluzione di continuità. Erano quasi dieci anni che Eugenio Finardi non scriveva niente di nuovo. Dieci anni senza inediti, spesi a ri-visitare (Vysotskji), sperimentare (“Il silenzio e lo spirito”), guardare al passato remoto, alle tracce-capolavoro lasciate alle spalle, ai suoi pezzi colonna sonora di quel decennio ribelle, i pezzi vintage, le canzoni che sostengono “Suono”, per esempio (senza contare le diverse antologie di estrazione più o meno autorizzata).

E adesso, nell’ora ideologico-asfittica tra il cane e il lupo, questo sontuoso “Fibrillante” in cui ci mette anzi tutto la faccia (vedi cover), la sua faccia di post-hippy, di ultra-fricchettone, la sua faccia di reduce non ancora arreso, battuto, rassegnato, anzi a dirla proprio tutta piuttosto incazzato.



Fibrillante” in cui infila dentro anche i canonici cuore-muscoli-cervello e, già che ci siamo con l’anatomia, qualcosina di fegato (nel senso del coraggio di cantarle ancora a muso duro), occhi (nel senso dello sguardo impietoso sulle cose della vita), e quel tantinello di anima che giova all’autenticità. Se mai il termine necessario è calzato a pennello per un disco uscito dopo l’obnubilamento discografico degli Ottanta questo “Fibrillante” necessario lo è fino al midollo. Un album trascinante, fluido, pensoso, incazzoso, schietto come un tazebao, effetto di voglia di dirle, cantarle, suonarle ancora forte e chiaro, oggi forse come non mai. Un concept-album con vista sul grado zero della civiltà, sull’alienazione attuale, sulla perdita di riferimento attuale.

Un j’accuse più lucido che livoroso, malgrado la furente “Come Savonarola”, in cui le parole contano e sono pietre, più che mai “(…) hanno vinto i culi stanchi/ gli arrivisti, gli arroganti / che più falsi non ce n'è/ Urlo alla Luna e al Sole/ le mie inutili parole/ che nessuno sta a ascoltare/ e allora ho voglia di bruciare/ gridando a squarciagola/ come Savonarola”. Che pena mi fanno a confronto i belati innocuo-struggenti-angelicati che mi tocca ascoltare nei cd della così detta (a sproposito) leva cantautorale degli anni zero. Mi viene voglia di farlo girare e rigirare di continuo, a tutto volume, quasi per dispetto, questo urlo di denuncia e di dolore finardiano. Di ascoltarlo e riascoltarlo, assumerlo come mantra, come feticcio di resistenza alla faccia di tutto e tutti, questo disco coi contro-coglioni dove se salti di palo in frasca del mal de vivre non è mai per partito preso o per piangerti addosso, ma per puntare l’indice sul lato orribile della cose, per alzare la voce contro la sopraffazione ontologica, per notificare senza edulcoranti la vita altrove di chi è costretto ad aspettare surrogati di un Godot che non arriva mai (“Aspettando”), oppure l’anima divisa in due di un uomo-simbolo, separato-rovinato-scippato dal diritto alla paternità per via di un amore con la data di scadenza (“La storia di Franco”).

Per cantare, insomma, degli affanni esistenziali e poi, subito dopo, giocarsi l’asso del contraltare resiliente: l’ostinazione ontologica del protagonista di “Cadere sognare” (licenziamento v/s la forza di non cedere), e di Finardi stesso che in “Fortefragile”, malgrado le “cicatrici” e “gli ingombri” si aggrappa persino all’ancora di salvezza del “privato”, per dichiararsi ancora “forte e fragile”. Della serie, in un modo o nell’altro, arrendersi mai. Di tempra poetico-resistenziale anche i piani ravvicinati coniugati al femminile - l’introspettiva “Le donne piangono in macchina” e “Lei s’illumina”, con un refrain che ti si ficca in mente al primo ascolto -; furente il focus di “Moderato”, anamnesi psicopatologica di un residuato centrista (un benpensante, un vigliacco, un opportunista, un trasversale) come non se ne ascoltavano dai tempi della bertoliana “Il centro del fiume”.

Quindi il congedo – dal disco, dalla rabbia, dalla storia e dalla malapolitica – in stile reading + refrain: più che una resa senza condizioni, “Me ne vado” risulta una presa di distanza per (ri)partire, si auspica, con ulteriore vigore. Un chiamarsi fuori dallo sfacelo quotidiano per riprendere fiato, alla maniera del dio-Gaber che alla fine dell’invettiva di “Io se fossi Dio” si ritira in campagna e buonanotte ai suonatori. Ultima analisi: “Fibrillante” è un ascoltare teso e lucidissimo, 46 minuti e spiccioli di secondo tra i migliori che mi sia capitato di trascorrere, complice la musica, da diverso tempo in qua. Taglio e scrittura sono da topos finardiani: immediati, scattanti, incisivi, mordi e fuggi.

L’aura sonora - sostenuta dagli arrangiamenti di Max Casacci, Giovanni Maggiore e di Finardi medesimo - alterna up tempo rock a climi pensoso-bleseggianti, per un insieme ruvido e scorrevole, specchio dell’anima di un album che piove come manna: dal cielo al qui e ora della nostra attualità (degradata), a segnare il ritorno di un padre storico del cantautorato italiano che gli anni e la fatica non hanno intaccato di un grammo, quanto meno nel peso specifico delle canzoni e nella volonta/capacità di sfoderare gli artigli e graffiare.

Poi è sempre vero che quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare, e gli ex barricadieri del rock-blues a scrivere e a cantare. Si parva licet.

Ultimo aggiornamento: 16-03-2014