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Massimiliano Martines: «Cambiano le forme che utilizzo
per esprimermi, ma il percorso è lineare»

di Piero Ianniello
Parlare con Massimiliano Martines significa prima di tutto percepire quanta determinazione ha nel proseguire nel suo percorso musicale. Poi significa anche scoprire un background culturale che è quello che accomuna tutti noi che abbiamo superato la soglia dei quarant’anni. Ed è davvero bello capire che quegli anni del reflusso culturale, gli anni ’80, hanno, se non altro, offerto terreno fertile alle radici di persone come Martines.

Salentino trapiantato a Bologna. Quanto è rimasto in te della Puglia?
Ho trascorso circa metà della mia vita a Bologna, l'altra metà è ancora a Galatina, nel Salento, dove ho gli affetti e qualche amicizia. Fino a poco tempo fa pensavo fosse un dettaglio residuale destinato a estinguersi col tempo, ma la scomparsa del mio babbo mi ha fatto prendere coscienza di quanto siano salde queste radici. In campo artistico ho pochi debiti, il più grande sicuramente quello di Carmelo Bene, figura ingombrante da cui ho assimilato molte cose.

Trovi che Bologna sia un terreno fertile sul piano culturale?
Bologna è una città schizofrenica, un luogo dove è sempre più diffcile conquistarsi uno spazio e non mi riferisco solo all'aspetto culturale. Qui però succedono cose che non vedo in altre città italiane, c'è una propensione naturale all'espressione artistica e all'inclusione; il rischio è che queste pulsioni si esauriscano e che la città imploda in sé stessa. Nulla è da ritenersi scontato, occorre conquistarsi tutto giorno per giorno, la convivenza tra le tante anime che la popolano è sempre sul punto di rompersi. Ciò è il risultato anche di un susseguirsi di amministrazioni catastrofiche e anche se adesso abbiamo una giunta e un sindaco forte, i problemi si sono accumulati e non sarà facile sbrogliare la matassa.
Il 2012 è stato l'anno delle perdite, sono morti Dalla, Roversi e Tassinari, tutte figure importantissime per la cultura cittadina, ma di respiro non esclusivamente locale. Vedo al momento un forte impasse: non essendoci persone in grado di raccogliere quell'eredità il compiacimento celebrativo è dietro l'angolo, come una iena pronta a dilaniare la carcassa.
La sfida in cui Bologna dovrebbe impegnarsi è quella di investire sulle proprie risorse artistiche e sostenerle adeguatamente. La città deve sentirsi in debito con le nuove generazioni che qui studiano, mettono in pratica desideri e ne disegnano instancabilmente l'immaginario. In Puglia, piaccia o meno Vendola, stanno succedendo cose meravigliose, le istituzioni hanno messo in piedi una rete di progetti che aiutano gli artisti a emergere e crescere, qui invece è un campo minato dove a emergere e crescere, invece, sono sempre i più furbi e ruffiani.

Ti possiamo definire un artista a tutto tondo: attore, poeta, cantautore. Quanto influiscono le altre arti sulla musica che fai?
Io mi definisco un artista, cambiano le forme che utilizzo per esprimermi, ma il percorso è lineare, almeno da questo punto di vista. Nella musica ho trovato una buona sintesi. Penso che abbia una forza maggiore rispetto alle altre arti, perché più penetrante e universale e riconoscibile. Il teatro mi ha insegnato a gestire il corpo e a restituire all'esterno, con il supporto fondamentale di gesti, presenza e voce, dei paesaggi emotivi e, solo in seconda battuta, una struttura retorica. La poesia è la mia lingua madre, la cifra che definisce la mia essenza, attraverso le parole riesco a capire il mondo e a metabolizzarlo senza rimanerne schiacciato. Il linguaggio della canzone, infine, trovo che sia un buon collante per tenere insieme l'alto e il basso, le cose spicciole e i grandi sensi, ma anche un mezzo in cui far confluire più esperienze e forme artistiche.

Tu dai molta importanza ai testi. Credi che nel panorama musicale italiano ciò sia un vantaggio?

Non so se sia un vantaggio o meno, non vorrei preoccuparmene. Mi piace scrivere in italiano, perché è la lingua che parlo e con cui penso, mi aiuta a comprendermi e farmi comprendere. L'inglese è una lingua che non ho mai amato e il dialetto lo uso talvolta, con parsimonia fra l'altro, solo come un colore, una citazione ironica, non mi ha mai affascinato più di tanto. Mi rammarico del fatto che anche in ambito indie vi sia scarsa attenzione per le metriche, le retoriche e la poesia, qui come nel mainstream trovo sempre soluzioni facili, neanche di moda, semplicemente di comodo. Nel primo cd sono caduto anche io in questa trappola, era la prima esperienza e pagavo lo scotto di avere voluto adattare alla forma "canzone" molti testi nati per la pagina scritta. Quante zeppe si usano oggi nelle liriche? "lo so, lo sai, che vuoi, non puoi, dai!, già!". Godard diceva che il cinema ha delle potenzialità mai sfruttate fino in fondo, che l'indugiare della macchina da presa su dettagli superflui e inutili non fa altro che togliere spazio a quello che si potrebbe dire. Così con le parole, aggiungo io.



In "Sugli alberi" sembri voler evadere da una realtà sociale insopportabile e trovare una via di fuga, appunto, sugli alberi. Un ritorno alla natura, o una torre d'avorio da artista?

"Sugli Alberi" è un testo complesso, nasce su facebook. Io utilizzo molto i social in maniera creativa. Per una serie di mattine ho annotato alcuni pensieri in forma di post, riflettendo sull'asservimento alla tecnologia e alla condizione post-borghese di cittadini che tutti noi viviamo. Questa canzone è un urlo contro i divieti imposti e autoimposti, contro la videocamerizzazione e l'impoverimento delle nostre esistenze, contro le tante convenzioni sociali che ci imbestialiscono. Da un lato dunque sarebbe bello tornare a una dimensione più naturale, come quando eravamo dei primati intenti a mangiare banane sugli alberi, dall'altro abbiamo questo grande polmone che è l'Amore, in grado in quattro e quattr'otto di ricondurci a una sensata razionalità.

Chi è la Mistress dell'omonima canzone? Una persona reale, come anche l'americana che viaggia sull'Alitalia?
Io parlo sempre di persone reali, sono un vampiro che si nutre del sangue degli altri! Per "Mistress" mi sono ispirato a delle persone che ho frequentato per un determinato periodo di tempo e che erano profondamente immerse in quel tipo di estetica. Anche "Americana" ha un nome e un cognome. In realtà però sono figure che mi hanno fornito un pretesto per raccontare altro. Questo disco ha molto a che fare con una visione politica, anche se filtrata dal sostanziale argomento amoroso. In Mistress parlo dell'Italia, della sua propensione a essere autoritaria e sadica. In Americana ho ribaltato il punto di vista, ho cercato di descrivere come ci vedono gli altri e di come sia difficile farlo al netto degli stereotipi. Comunque entrambe sono canzoni leggere, divertite e divertenti, soprattutto nella versione dal vivo che è quella in cui do il massimo.



Sono dunque gli eventi della tua realtà, della tua quotidianità ad ispirare i tuoi testi?

La realtà che vivo è la fonte di ispirazione primaria delle mie canzoni, non conosco altra via. Naturalmente è mediata dal mio immaginario e dalle figurazioni che vi proietta il mio personale mondo interiore, un mondo abitato da mostri e desideri incalzanti che spesso tolgono il respiro e agitano i sogni.
Quando scrivo mi lascio guidare dall'istinto, un'idea non so mai quale piega possa prendere, lascio sempre aperta la possibilità di trovare incastri inediti che riescano a sorprendere me stesso innanzitutto e che mi divertano: è il gioco della creatività, ciò che - in poche parole - mi tiene appeso all'esile filo della vita.

La tua musica mi sembra il frutto di diversi stili musicali. Ho rintracciato anche influenze delle musiche alternative degli anni 80. È un accostamento azzardato?
Sono cresciuto negli anni 80 e mi sono nutrito di canzonette. Avevo la stanza tappezzata di poster di Madonna, Vasco Rossi, Duran Duran, Curiosity Killed the Cat... ogni tanto poi mi capitavano tra le mani album sconvolgenti come "Naked" dei Talking Heads o "Rain dogs" di Tom Waits. L'incontro con "The Wall" dei Pink Floyd, che conobbi attraverso la bellissima trasposizione cinematografica di Alan Parker, fu per me ua vera epifania. Non so quante volte ho visto quel film!
Dal punto di vista musicale, comunque, il nuovo cd è il frutto dell'incontro coi miei produttori artistici, insieme abbiamo fatto parecchi ascolti, dai classici come Neil Young, Bob Marley, David Bowie, The Beatles, i Rolling Stones, ma anche cose più contemporanee come Giorgio Canali, Sigur Ròs, i Verdena, Jovanotti, Alberto Fortis, Dillon, Dirty Beaches...

Sei tu a scrivere le musiche delle tue canzoni?
Io scrivo accordi e impronto la linea melodica, il resto è farina del sacco dei musicisti e degli arrangiatori.

Suoni qualche strumento musicale?
Suono la chitarra, ho imparato tardi, quindi non mi azzardo a farlo dal vivo, ho troppo rispetto di chi lo fa professionalmente. Sto cominciando a mettere le mani sulla tastiera.

Chi sono i tuoi musicisti?
Da anni lavoro con il chitarrista Daniele Chiefa e il percussionista Max Messina. Insieme abbiamo dato vita a molti progetti, anche di contaminazione col teatro, un luogo che ho frequentato per tanti anni e a cui torno spesso come si torna a casa dai propri genitori. A questi si sono aggiunti Antonello D'Urso e Vince Pastano che hanno anche vestito le canzoni di "Meccanismo Estetico", entrambi chitarristi. Tutti loro hanno maturato un percorso nella musica di tutto rispetto e lavorano contemporaeamente in contesti molto diversi, dal cantautorato all'indie, fino al mainstream, vantano per esempio collaborazioni con Luca Carboni, Guido Elmi, Mimmo Cavallo, Fede Poggipollini, Grazia Verasani, Lucio Dalla, Germano Bonaveri...

Rispetto a "Frottole", il tuo precedente disco, mi sembra di vedere una maggiore verve nelle tue canzoni. Quale è stato il tuo percorso di crescita artistica che ti ha portato a Meccanismo Estetico?
"Frottole"
è un disco nato con una certa inesperienza, ma animato da un forte entusiasmo. La sua originalità risiede nella commistione con la poesia e il teatro, ambiti in cui avevo già definito una mia cifra. Lo studio della musica e l'ascolto di tante cose diverse mi hanno guidato in un percorso di crescita che spero non si esaurisca mai, e mai si esaurirà finché io non sarò stanco di cercare me stesso, trovo che ci sia un nesso strettissimo tra le due cose. Le difficoltà e gli ostacoli sono sempre tanti, eppure proprio questi alimentano ispirazione e spinta. Quando porto a compimento un progetto, come nel caso di "Meccanismo Estetico", mi sembra di non avere raggiunto un traguardo (sarebbe bello se così fosse!), piuttosto mi trovo dinanzi a un nuovo punto di crisi, è come quando ti innamori e sembra di avere trovato un'isola su cui respirare, invece basta una distrazione, un accomodamento perché tutto si sbricioli in un attimo.

Come è stato l'incontro con il Club Tenco?

Avevo mandato alcune tracce del nuovo cd ai membri del Club Tenco seguendo le istruzioni riportate sul sito, poi il pomeriggio di una domenica d'agosto del 2011 ricevetti la telefonata di Enrico De Angelis, che mi disse di avere trovato interessanti i brani e che avrebbe voluto, insieme al resto della giuria, ascoltarmi dal vivo. Ero emozionatissimo, neanche un mese dopo eravamo a Piombino per il Tenco Ascolta. Conoscemmo persone incredibilmente umane e alla mano.

Quali sono i progetti per il futuro?

Ho già pronta una rosa di brani da selezionare per il nuovo cd, mi metterei subito al lavoro, sono alla ricerca delle risorse per produrlo, sarà impresa ardua e sanguinosa.

Intervista dell'ottobre 2012