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Le BiELLE RECENSIONI
Stefano Barotti: "Gli Ospiti"

Il gradito ritorno di Stefano “l’americano”
di Silvano Rubino

È bello trovare delle conferme. A distanza di quattro anni da “Uomini in costruzione” ritrovo Stefano Barotti. Il suo esordio mi aveva conquistato per le sue atmosfere d’oltreoceano (avevo parlato di “profumo di prateria”), con i piedi ben piantati nella tradizione della migliore canzone d’autore italiana. Un piccolo miracolo, fatto di testi curati, di belle melodie e ottimi arrangiamenti. Si sa che il secondo disco è il più difficile. Ma il piccolo miracolo si è ripetuto. “Gli Ospiti” è un disco ben scritto, ottimamente suonato, con una sua forte identità. C’è ancora lo zampino di Jono Manson, produttore anche di questo lavoro, c’è ancora un’atmosfera molto americana, solo più colorata di nero (nelle sfumature, blues, soul, R’n’B), ci sono ancora l’attenzione e la cura nei testi. Niente grandi sorprese, quindi. Ma non è quello che ci si aspetta da un cantautore al suo secondo lavoro. Che caso mai deve fornire conferme, deve chiarire il suo profilo, la sua personalità. E Stefano Barotti porta a casa il risultato.

“Gli ospiti” non è un prodotto che punta a rimanere chiuso in una nicchia, tutt’altro. È un disco con una certa facilità di ascolto, sia sul fronte delle melodie, che su quello dei testi. E che quindi mira a varcare le soglie del mercato vero, quello in cui molti (i più) faticano a trovare spazio, soprattutto se alle spalle non hanno colossi discografici o big sponsor.
Ed è forse proprio nella facilità, soprattutto dei testi, che ravviso un piccolo neo di questo disco. La semplicità, qualche volta – ma solo qualche volta - rischia di scivolare in un’eccessiva prosaicità, in una certa scontatezza di immagini e di trovate, di scelte lessicali (angeli ovviamente “bellissimi”, musica che “fa muovere le gambe”, stelle che si affacciano su un già sentito “tappeto nero del cielo”). Peccato, perché Stefano ha una buona penna e in molti punti del disco si dimostra anche paroliere di vaglia, come quando canta e “Dio lasciò la sua partita di scacchi/ e dalla veranda si affacciò/ e vide il mondo ridere” (“L’angelo e il diavolo”), o “e tutti i pensieri se ne cadono già/ il mio cane li cerca fin sotto i tappeti/ e il profumo dei sogni mi cade negli occhi” (“Il profumo dei sogni”).

Il disco scivola via piacevolmente tra momenti più allegri e altri più malinconici e intimistici. Al primo versante appartengono l’apertura soul (con un inedito inserto di fiati) “Tempo di albicocche”, giocata su un tema molto caro a Stefano, quello della memoria (“mia madre nel mese di maggio/ mi pagava i quadrifogli mille lire l'uno), la degregorianissima ballata “Vive dentro una canzone”, favole accattivanti come “L'angelo e il diavolo” e “Il costruttore di ali”, incursioni in punta di piedi nel mondo dei sentimenti, come “L’uomo più curioso del mondo” o come la conclusiva “Piccola canzone”. Barotti sa come farci canticchiare, ma non gli basta. Ed è anche in grado di tirare fuori unghie che toccano corde più profonde, come in “Per un chicco di sale”, (con un incipit che è quasi una citazione deandreiana, “se un giorno verranno a chiedermi di te”), o in “Il profumo dei sogni”, ballata malinconica e piena di poesia semplice, fatta di immagini quotidiane, distesa su un tappeto di chitarra acustica. Ma soprattutto nella title track, “Gli ospiti”, uno struggente e potente addio, con un testo prezioso, direi la vetta del disco. Notazione a parte meritano i due brani di ambientazione montana. Stefano, ligure di Sarzana, è un frequentatore di Cormayeur, sede della sua etichetta “Club de Musique”. Sarà per quello, sarà per una passione vera, ecco che nel disco compaiono mondi che raramente si vedono raccontati nei testi delle canzoni. “Pesanti le coperte piccole le chiese/ le finestre delle stanze sono quasi sempre chiuse/ le facciate bianche imbiancate a calce/ dai piccoli terrazzi grandi panorami”: “Natale sui monti” racconta la vita di montagna dal punto di vista di chi la vive ogni giorno, senza immagini da cartolina. “La neve sugli alberi”, è una canzone di bosco, una favola nera, dove è la natura a essere più protagonista che sfondo.

Le undici canzoni, per un totale di quarantasei minuti di buona musica, sono state prodotte, come per “Uomini in costruzione”, da Jono Manson e registrate tra l’Italia e gli States, tra Sarzana e il New Mexico. Un disco ben suonato, su questo non ci piove, anche per il livello dei contributi esterni: segnalo la chitarra di Paolo Bonfanti, mentre Kevin Trainor, accompagna quasi tutto il disco tra chitarre elettriche, dobro e chitarre slide. A completare gli arrangiamenti con le sei corde sono Jono Manson, Gabriele Ulivi, Marco Kaserer e lo stesso Stefano. La sezione ritmica del disco è curata da Mark Clark e Marco Barotti (batteria e percussioni). Completano la (folta) schiera dei musicisti Tom Adler al banjo, Chris Ishee a pianoforte e organ Hammond, Deborah Barbe al violoncello, Michele Menconi e Mattiew Voghan ai violini, Pietro Bertilorenzi e Peter Williams al basso, Marco Bartalini e Vittorio Alinari alla sezione fiati, George Breakfast al mandolino.

Stefano Barotti
"Gli Ospiti"

Club De Musique Records 2007
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Ultimo aggiornamento: 02-07-2007
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