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Le BiELLE Interviste
Alessio Lega e l'antologia francese

"Una storia concentrica, un suggerimento"
di Giorgio Maimone

Io e Alessio Lega abitiamo nella stessa città. Non solo, ma per motivi vari ci vediamo molto spesso. Nonostante questo non c'è stata volta in cui abbiamo provato a fare un'intervista dal vivo che non ci sia stata qualche diavoleria tecnica a impedircelo: registratori che si spaccavano, altri che uscivano di produzione e non trovavi più le ricariche, registratori che fingevano di registrare, i-Pod fallaci e menzogneri che dicevano esistesse un file che in realtà era solo nella loro immaginazione e così via. Ci manca solo l'afonia di uno dei due per completare il cursus dei possibili orrori. Quindi, tutte le volte, ripieghiamo sull'intervista via mail. Più comoda, ma meno immediata. Anche questa volta è andata così. Non stupitevi quindi se a domanda e risposta non segue contradditorio. Seguirà a voce. Su Alessio Lega, ho già detto più volte, penso tutto il bene possibile. E' uno dei migliori che abbiamo e penso che farà ottime cose, oltre a quelle che già ha fatto. Non sono del tutto d'accordo (e lui lo sa) sugli arrangiamenti che i Mokaciclope fanno sulle sue canzoni. E questo è motivo di dibattito. Quello che leggerete tra poco qua sotto.



Giorgio: Centocinquantavolte ho iniziato questa intervista e non l’ho mai finita. E ne abbiamo parlato già 847 volte, più un’intervista a voce che il registratore si è “mangiato”. Vediamo se ce la faccio ora.
Le perplessità da parte mia le conosci benissimo.

Ale: Ebbene si… so che questo disco t’ha creato un caso di coscienza (si fa per dire!). Da una parte la nostra amicizia e la reale ammirazione per i brani e i loro autori (e un po’ anche per il mio lavoro di traduzione), dall’altra l’esito musicale che in generale non t’è piaciuto… Proprio però l’amicizia e la stima reciproca ci danno l’occasione - più unica che rara - di fare una discussione, mettendo da parte le suscettibilità, fra punti di vista opposti, e forse anche di scendere a fondo in quelle che sono state le idee guida di questo disco.

La produzione

Giorgio: Spieghiamo come prima cosa il progetto. Per “giustificare” la lunghezza eccessiva (quasi 70 minuti) mi hai detto che la tua intenzione era un po’ quella di comporre un’antologia.

Ale: Io credo che i cd (tecnicamente intesi come dischetti d’alluminio) siano un contenitore senz’anima, dunque nel pensare un disco mi richiamo alla durata aurea del vecchio vinile: 45 minuti. Da questa mini-regola si deroga per i live e le antologie. Questo disco, fra molte cose, ambisce a voler essere precisamente un’antologia di due generazioni di autori francofoni: i grandi classici Brassens/Brel/Ferré (Brel era però un po’ più giovane degli altri due) e i moderni Renaud/Leprest… ritengo che il minimo sindacale per potersi avvicinare alla scrittura di un autore siano 3 canzoni… ecco che già di partenza c’era una scaletta di 15 pezzi… senza almeno questi quindici avremmo dovuto far dei torti ad autori cui vogliamo troppo bene!

Giorgio: E’ un disco in cui mi sembra che manchi la produzione…

Ale: C’è stata sicuramente una produzione – diciamo - di assemblaggio e ri-scrittura dei materiali originali che è mia, poi una produzione della ri-scrittura musicale (che mi pare sia la parte su cui hai più da ridire) che è collettiva dei musicisti, e poi ancora una produzione dei suoni che è di Max Trisotto, che ha anche prodotto gli arrangiamenti… cioè ha trasformato delle intuizioni musicali in una realizzazione precisa. Dato a Cesare qual che è di Cesare (23 pugnalate!), questo è un disco autoprodotto… con tutti i pregi e i limiti: dire che manchi la produzione è come dire che in una democrazia manca un dittatore!

La scaletta

Giorgio: Devo dire che è un album che mi fa un effetto agro-dolce. Sento un bel brano, mi rilasso. Me lo godo fino in fondo e …. TAC … mi cade sulla testa “La scimmia!”. In alcuni attimi sfiori il sublime, poi sembra quasi che ne hai pudore e lo rifiuti. Un disco contrastato. Mi fa quasi pensare che diviso in due facciate (A e B, come nei vecchi vinili) e separando i brani rock da quelli lenti si potrebbe godere di un ascolto più armonico. Farò la prova.

Ale: Tornando alla definizione di questo disco come antologia, pare del tutto evidente che la scaletta è solo un suggerimento. Però non un suggerimento casuale! Avremmo potuto mettere le canzoni in ordine cronologico o per autore, abbiamo invece cercato di suggerire una storia concentrica, una struttura a chiasmo.
- Sul palco fa da introduzione, è la sigla in cui appaiono i nomi, o piuttosto i pensieri, di quelli che sono lì a suonare.
- Arriva poi un blocco emotivo, il romanzo della formazione, l’educazione sentimentale (Amori marinai, La straniera, La birra… tre storie da taverna o da… pub sui navigli!)
- Per continuare questa educazione si passa a una visione della politica, anche un po’ infantile se vuoi (La medaglia esprime un dissenso quasi punk attraverso un immaginario scatologico: la merda, il piscio, il vomito) o ancora più giornalistica che vissuta (Le cose schifose).
- La vita e l’amore diventano una cosa quotidiana (Sulle punte); così il mestiere di vivere e poi la morte fanno capolino in due canzoni contrapposte e perciò accostate (Tango funebre/Con eleganza): la prima è la morte vista da un vivo con tutte le sue passioni e violenze, la seconda è la vita vista da uno che si sente già morto. Ma la morte non è la fine di nulla, è un passaggio, perciò l’abbiamo messa al centro del disco.
- Si ricomincia da una nascita, anzi da un concepimento (Filistei). In questa seconda parte tutti i temi della prima ritornano, non più come paradigmi ma come narrazioni, la realtà prende il posto della favoletta. La scuola e la cultura civile (Quando si va dove e La scimmia), l’impossibilità di crescere rispettando il proprio talento naturale (Chissà).
- Naturale è la grande canzone di resistenza e amore.
- Infine la resistenza alla morte civile: Tolleranza zero/Grano d’anarchia/Né dio né stato, tre canzoni su tre diverse forme di pena di morte. L’ultima è la più rivendicativa, la più propositiva. Nasce dal magma confuso dell’improvvisazione strumentale e finisce con un monito che è politico ed esistenziale, che rifonda una religione dell’uomo libero.
Abbiamo aperto con la visione interiore dell’artista, abbiamo seguito la sua evoluzione sentimentale e politica, il suo scontro con la cultura e con la vita. Alla fine il nostro eroe è diventato un uomo, appunto né dio né stato.

Giorgio: “La scimmia” e “Chissà” messe di fila piegherebbero la buona volontà dei santi. Non pensi che sarebbe stato meglio allontanarli nella scaletta?

Ale: La scimmia è una canzone quasi Rouseauviana, che prende per culo l’evoluzionismo, dicendo che forse quand’eravamo scimmie, con un po’ meno scartoffie, armi e religioni, ce la passavamo meglio; Chissà parla dell’impossibilità nella nostra società di esprimere i propri talenti naturali (chissà se poi è De André/l’ubriaco che fischietta)… mi paiono due variazioni dello stesso tema, perciò sono accostate.

Giorgio: … e non è comprensibile che dopo un’ora e qualche minuto di musica “tesa” e non superficiale si arrivi a un solo di musica stile Pink Floyd incomprensibile e fuori luogo. Né brutto, né bello. Non è questa la questione di quel pezzo. Ma lì non doveva starci.

Ale: Quel pezzo si trova fra due brani di Ferré, uno minuscolo che ho cantato a cappella Grano d’anarchia, l’altro un inno della maturità Né dio né stato.
Léo ha conosciuto tre fasi della sua carriera il primo in cui scriveva velenose canzoni ancorate alla tradizione e il cui potenziale era dissimulato sotto l’apparenza leggera (cui appartiene il primo brano), un secondo, quello delle sue canzoni più note (Avec le temps, Les anarchistes e, appunto, Ni dieu ni maitre), e un terzo in cui s’è svincolato dalla forma canzone per creare dei recitativi su poemi sinfonici con echi Beethoveniani e Ravelliani. Le due prime fasi erano ben rappresentate da quei due pezzi che trattano dello stesso argomento. Alla terza fase è molto difficile rendere omaggio, noi ci abbiamo provato attraverso il principio dell’improvvisazione che è, quasi didascalicamente, la forma più libertaria possibile: un sorta di caos ordinato da cui far emergere il brano più esplicitamente anarchico, l’ossessività del bolero (Ravel, per l’appunto) trasfigurata nell’ossessività della psichedelia.

La traduzione

Giorgio: Ci sono delle cose geniali, soprattutto a livello di traduzione come: “C’è Bene (Carmelo) che ti recita il male”, “il Chiapas che aspetta la primavera” “Sul palco c’è Sting che mi guarda e poi ride” che senz’altro non c’erano negli originali (buona parte dei quali sono stati scritti 40 anni fa e oltre). Hai operato in modo libero, ma in un certo senso fedele sui testi. Fedele alle intenzioni. Insomma “tradotte, ma non tradite”.

Ale: Nell’atto della traduzione ci sono due intenzioni diverse con cui fare i conti: l’intenzione dell’autore e l’intenzione del testo. Queste due intenzioni man mano che ci si allontana nel tempo e nello spazio differiscono sempre più. Per fare un esempio banale: se negli Stati Uniti faccio riferimento a uno sport particolarmente popolare dico baseball, se lo faccio in Italia dico calcio.
Io credo che – cercando di evitare la forzatura e il grottesco – bisogna aderire più all’intenzione dell’autore che a quella del testo… per farlo però è necessario conoscere l’autore, studiarne la biografie, le idee, le passioni. Io ho letto qualche pagina in merito a Léo Ferré e compagnia, per cui quando, per venire al tuo esempio, in Sur la scene (Sul palco) lui fa riferimento al grande attore francese Charles Dullin (su cui ho fatto delle ricerche, perché quando ho sentito la prima volta la canzone proprio non sapevo chi fosse). Io cerco d’interpretare cosa rappresentava quell’attore per Léo e la sua generazione. La scelta di metterci Carmelo Bene è ovviamente personale e dettata dall’ammirazione incondizionata che porto al mio grande conterraneo.
Più in generale la traduzione della canzone è un atto d’amore e come tale prevede un rapporto con l’originale di continuo scambio: si viene invasi e violentati da un autore, dalla sua vita, dalle sue ossessioni, dal suo linguaggio, e poi a propria volta ci si scambia i ruoli. C’è qualcosa di sessuale, fondo e incontrollabile. È una discesa in un grembo comune, una risalita del fiume alla ricerca della medesima ispirazione.
Talvolta i brani sono delle favole paradigmatiche e la traduzione allora è fedelissima (Amori marinai, La straniera, Sulle punte), talvolta sono delle narrazioni universali ma con un’ambientazione precisa, e così personaggi e svolgimento restano uguali, ma cambia la scenografia (Tolleranza zero, La medaglia), talvolta sono canzoni in cui è importante mantenere l’idea di base, la struttura, ma proprio per questo è necessario re-inventarsi totalmente lo svolgimento (Sul palco, Chissà, Le cose schifose).

La tradizione

Giorgio: Sarebbe stato più interessante, più che innestare brutalmente il rock sul solco della tradizione francese, fare uno studio musicale che, pur restano nell’ambito della canzone francese, prendessero spunto dalle tendenze più creative delle musica francese d’oggi (certo rap, ibridazioni maghrebine, Pascal Comelade, Arthur H.).
A me resta la percezione dello “stupro” culturale in certi momenti. Ripeto, al di là del fatto se la canzone sia poi venuta bene o meno. Sembra un uso improprio del bagaglio culturale di un popolo. O meglio, una voluta trascuranza. Che a livello di testo non ti sei e non ti saresti mai permesso. Con una vera nota dolente: la batteria! E’ stereotipata. Praticamente assente nella canzone francese classica è qui costretta a eseguire marcette. Perché c’è poco scampo, il tempo delle canzoni francesi spesso è un tempo in tre, tempo di valzer. La batteria c’entra come i cavoli a merenda.

Ale: cercherò di fare un discorso più generale sulla percezione della canzone francese (non ti sarà sfuggito che io la chiamo sempre “francofona”).
La canzone francese non esiste! Dei tre mostri sacri Ferré era del principato di Monaco e aveva studiato a Bordighera, a Parigi per cantare c’era arrivato pressocchè trentenne, Brel era Belga e manco vallone, bensì fiammingo! Brassens era un francese del sud con la mamma napoletana… pensa quali ninna nanne cantava Elvira Dragosa al piccolo Georges!
In Italia invece i primi cantautori erano non solo genovesi, ma dello stesso quartiere, la Foce! Giustificato dunque il nostro provincialismo, ma non inventiamoci per gli altri tradizioni inesistenti. La canzone moderna nasce in Francia con Charles Trenet che era un jazzofilo accanito. Il primo a fare chanson a texte con la chitarra è Felix Leclerc che era un uomo dei boschi canadese… Insomma per allargarci, la grandezza della cultura francese è proprio nel non avere un tratto nazionale, nel nascere già ibrida, come le avanguardie del ‘900 che nascono quasi tutte a Parigi ma da artisti stranieri (Modigliani, Picasso, Apollinaire, Tzara, Brancusi, ecc…). Per venire alla notazione tecnica: nessuno dei brani fatti da noi era caratterizzato da un tempo in tre! I più valzerosi sono quelli di Renaud, ma solo perché derivano dalla folk ballad americana. Gli arrangiamenti originali erano chiari tentativi di fare del pop, così come lo si faceva all’epoca. Unica eccezione Brassens, che si accompagnava solo con la chitarra e il contrabbasso (e infatti per lui abbiamo in un caso tolto anche la chitarra e fatto un pezzo solo voce/basso)… ma, occhio alle apparenze, in realtà Brassens compone nella stragrande maggioranza delle marcette swing, il suo riferimento ritmico era Django Reinhardt (non a caso l’unico musicista originale del jazz europeo! E, ancora una volta, un francese… gitano!).

Giorgio: Le canzoni meglio venute sono quelle che meno cercano di uscire dal solco della tradizione, come “Amori marinai”, “Con eleganza”, la prima parte di “Naturale”. Non credi che parole tanto belle meritassero più attenzione e meno distrazione? E poi perché scegliere, dovendo proprio trasgredire, atmosfere da cabaret Brecht-weilliani? Espressionismo sonoro, solismi alla Hendrix. Tutte tracce fuori da qualsiasi contesto culturale, vicinanza per contrasto?

Ale: A proposito di Hendrix lo sai che, poche settimane prima che morisse, Ferré lo aveva contattato per incidere un disco assieme? Renaud ha registrato i suoi dischi più noti con la produzione di Phil Palmer (un’icona del pop anni ’80). Ripeto, siamo noi italiani ad avere una visione un po’ stereotipata della chanson… Gainsbourg, uno dei grandi assenti di ‘sto disco, era nato nel ’28 (per intenderci, lo stesso anno di Modugno) e ha inciso i suoi ultimi dischi con i musicisti di Micheal Jackson. Oggi c’è un suo “allievo” interessantissimo, Alain Bashung, che fa alcune delle cose più estreme nel campo della sperimentazione sonora che la canzone occidentale abbia mai conosciuto.

Giorgio: Io sento lo stacco tra l’interpretazione, ovviamente vicina ai classici, e la musica che cerca di allontanarsi, ma la provocazione non riesce. C’è una crasi, uno scollamento, sembrano due canzoni diverse. E’ il caso tipico di “Naturale”.

Ale: L’andatura carillonante di quel pezzo è una dichiarata citazione di Sundey morning dei Velvet underground, anche lì la voce di Nico è una voce da sciantosa, un modo di cantare tradizionale sovrapposto a una struttura che incrocia Satie alla musica undergdround del ‘66. L’originale Bonhomme (Naturale) è un capolavoro di dolore trattenuto. Una tempesta esteriore (la bufera) e una interiore (la morte naturale del compagno) non fanno deflettere di un atomo la vecchina che, in tutto questo disastro, procede inarrestabilmente al suo scopo, forse inutile: raccogliere legna per scaldare un morto. Per cosa? Per rispetto della vita, perché la vita stessa è una storia di resistenza contro la morte. È una canzone che a me fa piangere di pena e d’orgoglio già solo a pensarci. Congelarla con quel glockenspiel, sospeso fra Dario Argento e babbo natale, era l’unico modo in cui avrei potuto cantarla senza singhiozzare.

Giorgio: Altri pezzi risultano ben amalgamati come “La birra” di Brel, ma in generale si sente una predominanza del parlato sul musicale come quantità che, a livello di volume sonoro si inverte. La musica schiaccia la voce. Problemi di mixaggio?

Ale: Se c’è un lavoro dove il missaggio è stato di un‘attenzione sacrale per la voce è proprio questo. A meno di non far sparire del tutto la parte musicale!

L’interpretazione vocale

Giorgio: Ma possibile che un disco recitato e cantato benissimo inizia con due errori di dizione (“amOOOre” e “canzOOOne”) proprio nel primo brano, possibile che non vi siate un po’ corretti a vicenda? E’ vero che uno non può sentire se stesso, ma gli altri sì.

Ale: Rocco me l’aveva detto…ovviamente la colpa è mia… e sei tu fin troppo buono a notare solo quei due errori. Io personalmente ho sempre trovato veniale il peccato della dizione nel canto, anzi ti dirò che sentire Guccini (o Dalla) senza la loro marcata – a volte grottescamente marcata - pronuncia emiliana, per cui tanto viene preso per culo, mi toglierebbe qualcosa… ma certo è un vezzo e chiedo pertanto venia!

Giorgio: Più in generale i Mokacyplope hanno questa tendenza alla musica automatica ripetitiva, un riff e via per l’eternità. Espressionismo e avanguardismo che si toccano. Non credi, è una provocazione ma ci sta, che i Moka non siano alla tua altezza? Tu scrivi canzoni molto belle, che reggono anche alla prova distruttiva di chitarra e voce. I Moka non fanno che rafforzare le intenzioni che già esprimi tu.

Ale: Ovviamente questa è una tua valutazione… e se per un canto è anche molto elogiativa nei miei confronti, dall’altro mi è impossibile risponderti.

L’interpretazione musicale (Alessio VS Moka)

Giorgio: I Mokacyclope prendono troppo spazio rispetto ad Alessio Lega…O, come sembra, è stato un lungo e faticoso compromesso tra due componenti diverse che non si sono sempre amalgamate?


Ale (cantando): Bien sur nous eumes des orages
Vingt ans d’amour, c’est l’amour fol!
(Certo ne abbiamo avuto di tempeste/vent’anni d’amore è amore-follia)
La chanson des vieux amants di Jacques Brel

Giorgio: E poi non è la trasgressione, ma l’esagerazione. “La straniera” pur essendo di Ferré, risente bene del trattamento aggressivo. Il clangore futurista di altri pezzi invece risulta fuori luogo.

Ale: Dai… clangore futurista ce n’è ben poco, direi che è un disco pop con qualche spruzzatina rock e progressive, tutt’al più.

Giorgio: Esempio di unione non riuscita “La medaglia” era già sufficientemente ironico il pezzo per non aver bisogno di una musica ironica (dio santo, ricorda Popcorn!) di sottofondo. Si rischia l’effetto paradosso di capovolgere l’intenzione. Sarcasmo parolaio, più sarcasmo musicale uguale noia. Non doppia attenzione.

Ale: Quello è uno degli arrangiamenti nato live e che facciamo da un bel po’…
Beh, l’abbiamo fatto a Mantova il due giugno del 2005 (giorno della parata delle forze armate!), e siamo gli unici a non essere mai stati pagati! In un blog – sempre in riferimento a quell’esibizione - un tizio ha scritto che ero un pirla che non meritavo rispetto perché non ne davo ai soldati. Quest’anno abbiamo fatto La medaglia a Faenza in teatro, in uno spettacolo sponsorizzato dal comune, e c’è stato un consigliere di AN che ha fatto un esposto (chiedi un po’ al povero Sangiorgi!)… tu dici che il problema del pezzo è che stimola poco l’attenzione… e se per caso la catturasse? Ci avrebbero già sparato?

Giorgio: Sull’altro versante “Le cose schifose hanno un gran bel nome” funziona. E non so dirti esattamente perché. Forse perché la musica resta più defilata e accompagna, pur con forza decisa e imponendosi all’attenzione.

Ale: In realtà l’arrangiamento di quel pezzo è forse quello che più s’avvicina al dato della scrittura originale: appena più lento, ma l’originale era un pezzo che giocava con i moduli della disco-music anni ’80, il nostro con quella anni ’90… senza saperlo ti piace perché aderisce all’originale come un guanto! Ti confermi un purista!

Giorgio: Un altro caso che calza a pennello è “Sulle punte”, pezzo alquanto lugubre e non dei più allegri, a cui è abbinata una marcetta funeralesca. Siamo a posto! Chiunque arrivato al pezzo numero sette del tuo disco schiaccia fast forward.

Ale: La mia percezione di quel pezzo non è poi così triste. Cosa racconta? Per metterla sul brutale: è notte, un uomo colto da un attacco d’insonnia (o di desiderio?) cerca di svegliare la sua donna titillandole i capezzoli (modiglianavo sul tuo tocco/e dato un ultimo ritocco), lei continua a dormire, allora lui guarda la luna, la corteggia un po’ (in maglia bionda sul balcone/la luna ha esploso il suo pallone/curvata quasi fosse incinta). Alla fine la luna resta lì e lui decide di tornare dalla sua donna (alla tua bocca che dischiudi/sono tornato a piedi nudi)… ben due storie d’amore che vanno bene in una sola canzone… direi che per il genere è una media straordinaria!

Giorgio: Forse l’ideale sarebbe stato poter fare un disco doppio. Ma la carenza dei mezzi non consente questi exploit da “ricchi”. C’è qualcosa che ti è dispiaciuto sacrificare e lasciare fuori? E c’è qualcosa, che, ripensandoci ora, non avresti inserito?

Ale: Doppio addirittura? A parte che c’è sempre tempo per farne un altro, vi sono moltissime canzoni lasciate da parte perchè non abbiamo trovato un arrangiamento che ci convincesse, come pure ci sono alcuni pezzi (Le scimmie o Le cose schifose) che ho tradotto appositamente perché ritenevo che dessero ottimi spunti al gruppo. Poi ti dico subito che c’è un ulteriore progetto imparentato a questo: c’è l’intenzione di raccogliere i miei articoli sulla canzone (francofona, ma non solo) in un libro, a tale libro dovrebbe essere allegato un CD con molti brani tradotti da molti autori fra quelli presenti nel libro. Tali brani saranno suonati solo chitarra e contrabbasso, per presentare, della mia ricerca sulla canzone d’autore, una visione interiorizzata che si situa agli antipodi del Pavé. Il Pavé nasceva per essere un doppio, il mio editore sarebbe stato disponibilissimo, ma i Mariposa (di cui i Moka sono per certi versi una costola) venivano dall’esperienza di Proffity now che avevano ottimi motivi per non ripetere. Ho preferito allora convogliare tutte le mie energie nella concezione del libretto del pavé, di cui un po’ mi dispiace che tu non parli, perché secondo me è una delle componenti fondamentali di questo disco…

Intervista rilasciata via mail il 20 gennaio 2007



Alessio Lega
"Sotto il pavé la spiaggia"

Nota - 2006
Nei negozi di dischi

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Tracklist

Sul Palco
Amori Marinai
La straniera
La birra
La medaglia
Le cose schifose hanno un gran bel nome
Sulle punte
Tango funebre
Con eleganza
Filistei
Quando si va dove?
La scimmia
Chissà
Naturale
Tolleranza zero
Grano di anarchia
Il disordine è uguale all'ordine meno il potere
Né Dio né stato



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Ultimo aggiornamento: 27-01-2007
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