Rock
sanguigno e gioco di squadra
di
Massimo
Baraldi
Sono
in quattro, vengono dalle Marche e insieme
hanno dato vita ad una delle più
brillanti formazioni rock attualmente
a piede libero nel nostro paese: sono
i Cheap Wine, e per il loro successo non
devono ringraziare nessuno.
Quello di Marco e Michele Diamantini (voce
e chitarre), Alessandro Grazioli (basso)
e Francesco Zanotti (batteria) è
un gruppo indipendente e felice di esserlo,
che si esprime come sa fare in un rock
genuino e privo di fronzoli. Con ormai
ben 6 album alle spalle i Cheap Wine hanno
dimostrato che possono esistere delle
alternative al mainstream musicale, a
patto di avere la forza di crearsele e
il coraggio di crederci. Per quel che
li riguarda la loro strada se la sono
tracciata da soli e della cosa non sembrano
affatto pentiti.
Fierezza contrapposta all'autocommiserazione
e integrità alla fregola del compromesso
sono i segni distintivi di una rock'n'roll
band che, anche grazie al circuito delle
radio sul web, sta facendosi apprezzare
all'estero e ha ricevuto apprezzamenti
da personaggi del calibro di Tim Perry
e Steve Wynn. Certo, non è poco.
L’incontro con Marco Diamantini
avviene subito dopo il concerto dei Cheap
Wine al Teatro Smeraldo di Montano Lucino
(CO), nell’ambito della rassegna
“Musica in collina” di Giulio
Bianchi.
MB: Andrea Pazienza disegnò
una bellissima vignetta in cui il protagonista
guardava perplesso un paesaggio desolato
e un testo recitava: “Le Marche,
un buon posto per finire dimenticati…”.
Direi che questo non è il vostro
caso, in dieci anni di onorata carriera
vi siete guadagnati la stima della critica
e un pubblico più che affezionato!
MD: Sì, però un fondo di
verità in quella vignetta di Pazienza
c’era. C’è (ride).
Nel senso che le Marche, seppure un po’
meno che in passato e nonostante possano
vantare attrattive straordinarie sia dal
punto di vista paesaggistico che monumentale-architettonico,
sono una parte pressoché dimenticata
del nostro paese. Poi, è vero che
noi siamo riusciti a conquistare un pubblico
e anche un po’ la critica, però
ci sono voluti molti anni, molta fatica...
ci viene abbastanza spontaneo pensare
che se fossimo stati di Milano le cose
sarebbero state più semplici. Sintetizzando…
MB: Siete uno dei pochi gruppi italiani
che si ostina a fare rock sanguigno in
un mercato in cui impera la ben più
rassicurante rielaborazione edulcorata
dal clima mediterraneo. Come mai questa
penuria di proposte? Politica dei discografici
o pubblico poco ricettivo?
MD: Probabilmente entrambe le cose. I
discografici ignorano totalmente questo
genere, non ci hanno mai creduto, continuano
a non crederci. Il pubblico, invece, è
di nicchia. Io penso che il problema vada
un po’ allargato, nel senso che
è determinato da un livello di
cultura musicale che in Italia è
pari a quello di un paese sottosviluppato:
il sistema dei mass-media ha progressivamente
annebbiato le menti dei giovani, in generale,
ma soprattutto di chi ascolta musica.
Io noto che il pubblico, in particolar
modo quello più giovane, è
poco curioso e si accontenta di ciò
che passano i grandi network commerciali
tipo MTV. Peccato però che quella
sia la musica più dozzinale e che
non si sforzino di cercare proposte meno
reclamizzate e di maggiore qualità…
chissà, forse le si considera qualcosa
di poco “in” e, in assenza
di un’autonomia di pensiero che
li spinga a cercare alternative, non c’è
da stupirsi che i cervelli si siano un
po’ assopiti, ecco…
MB: Se le proposte rock delle major, negli
ultimi anni, avevano un sapore un po’
annacquato, ora stiamo assistendo ad una
massiccia rivalutazione della musica delle
radici. Tu che ne pensi? Operazione commerciale
o voglia di recuperare una dimensione
più ruspante?
MD: Diciamo che questo è un fenomeno
trainato da personaggi tipo Springsteen
o Dylan... poi, come al solito quando
c’è l’intuizione di
una star, subito si scatena una bagarre
di pseudo-imitatori. Il disco di Dylan
è straordinario e le operazioni
fatte da entrambi sono apprezzabili...
ma tutto il resto, benché sia un
genere che amo e che fa parte del mio
background, lo guardo con un po’
di sospetto. Due grandi nomi hanno riaperto
una porta, non sono molto convinto della
genuinità di quello che si sta
muovendo dietro.
MB: Molti musicisti si limitano a fare
i musicisti, ma i Cheap Wine sono ben
più di una semplice rock’n’roll
band: ormai avviati lungo la strada dell’auto-produzione,
gestite e controllate ogni singolo aspetto
del vostro lavoro, dalla grafica delle
copertine all’ufficio stampa. Vi
sentite penalizzati da questa scelta o
è fonte di ulteriore gratificazione?
MD: Il nostro primo mini-CD venne prodotto
da una etichetta indipendente, la Toast
di Torino, tanto per non fare nomi, ma
è stata una bruttissima esperienza:
insoddisfatti del modo di lavorare di
questa gente, abbiamo deciso che in mancanza
di proposte serie avremmo fatto da soli.
Proposte serie non ne sono mai arrivate
e noi ci siamo strutturati in modo da
non dover aspettare nessuno per suonare
la musica che ci piace, quella che abbiamo
nell’anima, senza rispondere ad
altro diktat che non sia la nostra attitudine.
È una cosa dura, porta via molte
ore al giorno… però la grande
soddisfazione è che controlliamo
al 100% tutto quello che riguarda i Cheap
Wine: è questo, oltre all'affetto
della gente che hai visto in sala, ad
alimentare la passione e darci la forza
di continuare. Per farcela, una rock’n’roll
band ha bisogno di un pubblico, e andare
avanti da soli nonostante le difficoltà
è comunque un motivo di orgoglio.
MB: Ci vuole del coraggio per fare una
scelta del genere, che è anche
un buon esempio per le nuove leve.
MD: Sì, io credo che la nostra
sia l’unica band in Italia con alle
spalle 10 anni di auto-produzione e auto-gestione!
Altri non ce l’hanno fatta a tirare
avanti così a lungo, ma noi teniamo
duro e siamo anche molto contenti. È
una scelta impegnativa, ma che per noi
è l’unica possibile: questa
è la musica che vogliamo suonare
e non accettiamo l’idea di piegarci
a niente e nessuno. Quello che facciamo
può piacere oppure no, però
sicuramente è sincero.
MB: Qualità rara, di questi tempi…
MD: Esatto!
MB: Avete da poco sfornato un nuovo CD,
Freak Show, il cui il rock “delle
grandi pianure” sembra sposarsi
con sonorità e ritmi più
aspri che a me ricordano le atmosfere
newyorkesi degli anni ’70, penso
ai Ramones e alle varie formazioni che
bazzicavano il CBGB’s. Ti va di
parlare del nuovo album?
MD: Dopo i consensi ricevuti da “Moving”
per noi sarebbe stato semplice fare una
sorta di “Moving parte II”,
di certo saremmo andati più sul
sicuro. Invece abbiamo deciso di sterzare
e provare sonorità che, come dicevi
tu giustamente, si avvicinano a quelle
della scena newyorkese di allora, tutta
composta da gruppi che abbiamo amato molto.
Non c’è stato niente di calcolato,
non è che ci siam detti “allora
adesso il prossimo disco avrà questo
stile”… anzi, a dir la verità
pensavamo che sarebbe stato molto diverso.
Poi in sala prove le canzoni sono venute
fuori così, spontaneamente, come
già era successo con gli altri
dischi. Evidentemente avevamo un’urgenza
di aggressività da esprimere, da
buttare fuori. Siamo molto contenti del
risultato, perché è quello
che volevamo.
MB: E anche il pubblico sembra gradire.
MD: Quando non riproponi qualcosa che
hai già fatto e cerchi un’evoluzione,
non sai mai quali potranno essere le reazioni,
no? Intendo quelle del pubblico, della
stampa o di chiunque. Noi non avevamo
idea di cosa potesse accadere e la risposta
è stata un entusiasmo che forse
nemmeno gli altri dischi hanno suscitato,
stiamo ricevendo un sacco di manifestazioni
di consenso. Persino riviste che in passato
ci avevano trattato abbastanza male, stavolta
ci hanno sostenuto e stiamo notando un
fermento interessante… adesso speriamo
che possa crescere!
MB: E sempre parlando di ricerca, in quale
direzione vi muovete adesso?
MD: Bè, è uscito da poco
tempo il disco, quindi ancora siamo ancora
molto dentro queste atmosfere, queste
sonorità qua.
MB: E cosa vi ha portato dove siete ora,
sempre un lavoro di squadra?
MD: Sì, assolutamente. Le musiche
ormai le scrive quasi tutte Michele, io
mi occupo dei testi, ma in sala prove
sugli arrangiamenti e tutto il resto lavoriamo
insieme. Perché i Cheap Wine sono
un gruppo nel vero senso della parola:
non c’è un leader ma quattro
componenti tutti indispensabili e molto
uniti, questa è una cosa che ci
caratterizza fortemente. Ci siamo ritrovati
tra queste sonorità in modo molto
naturale, e sono piaciute a tutti.
MB: Per quello che riguarda i testi, invece,
le vostre canzoni sembrano ispirarsi ad
un certo tipo di letteratura americana,
con storie di follia quotidiana, di fughe
e di eroi alla rovescia... anche la scrittura
è un lavoro di squadra?
MD: Guarda, la scrittura non è
un lavoro di squadra, la scrittura è
un lavoro mio, soprattutto perché
conosco l’inglese meglio degli altri
e quindi me ne sono sempre occupato io.
Parlando dei testi, c’è una
diversità rispetto ai lavori precedenti:
se quelli degli altri dischi erano intimisti
e guardavano più all’interiorità,
i testi di “Freak Show” puntano
direttamente fuori, sono uno sguardo su
ciò che sta succedendo all’esterno.
MB: E che mi dici delle tue letture? Hanno
un'influenza sul tuo lavoro?
MD: Ad affascinarmi sono i testi che sanno
evocare suggestioni cinematografiche,
fermi immagine, scene mute… ho sempre
cercato di scrivere in modo che le parole
potessero rimanere, vorrei che non scadessero
a livello temporale, che il leggerle tra
vent’anni non le faccia apparire
come un qualcosa che ormai non c’è
più. Questo vorrei.
Per le mie influenze… non riuscirei
a dirne una sola, come per la musica sono
infinite e raccolte nel corso di una vita.
Grazie agli studi classici ho conosciuto
la letteratura europea, poi mi sono diretto
verso quella americana, spaziando dagli
scrittori beat a Bukowski fino a romanzieri
più recenti come James Lee Burke.
Mi piacciono moltissimo autori quasi giornalisti
come Chatwin o Kapuscinski. Poi c’è
naturalmente l’influenza delle canzoni
rock che ho ascoltato nel corso degli
anni e non ultima quella del cinema, in
particolar modo dei road movie, che da
“Easy Rider” in poi sono diventati
dei punti di riferimento a livello visivo
e immaginario.
MB: C’è qualcos’altro
che vorresti dire? Qualcosa che ti passa
per la testa?
MD: Ultimamente mi son trovato a riflettere
sul tipo di pubblico che abbiamo. Sai,
non lo dico in maniera presuntuosa, però
penso che per essere un fan dei Cheap
Wine sia necessario avere una certa personalità…
nel senso che noi non siamo un gruppo
che va in copertina, non siamo un gruppo
col video che passa su MTV, non siamo
un gruppo che ha recensioni a cinque stelle
sui giornali, non siamo un gruppo che
fa figo, non siamo un gruppo “in”:
siamo un gruppo che pensa al 100% alla
musica. Quindi per essere un nostro fan
devi fare altrettanto e avere una tua
personalità, perché di certo
non fa figo esserlo. E penso anche, stavolta
presuntuosamente e ricollegandoci al discorso
di prima, che il nostro pubblico abbia
una cultura musicale forte e una altrettanto
forte curiosità, perché
dimostra di aver voglia di ascoltare altro.
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