Quando
i migranti eravamo noi. Per pensare ed emozionarsi
di Giorgio Maimone
Non
cercate un sorriso qua dentro. Non lo troverete. Non cercate redenzione
o speranza, perché non ve ne sono. Gianmaria Testa ha prodotto
un disco rigoroso e serio, triste e compreso, intenso e violentemente
poetico, dove l’ombra di un sorriso è sfiorato solo
in un pezzo, ma è un sorriso ironico e disperato, dalla parte
degli ultimi. “Dal letame nascono i fiori” diceva il
più grande tra i cantautori, e qui “hanno posato sul
banco dei fiori”, intorno ai garofani e alle gardenie, il
frutto di uno “sgravidamento sul suolo pubblico comunale”.
E’ l’unico sorriso, contenuto ne “Il mercato di
Porta Palazzo”.
Per il resto “Da
questa parte del mare” parla dei moderni migranti, parte da
un episodio reale, vissuto dal cantautore 14 anni fa su una spiaggia
dell’altro Adriatico, quando sono stati ripescati in mare
clandestini scaricati dalla stiva di un cargo. Uno di loro morì.
Gianmaria Testa però è un poeta e la sua voce è
forse profonda e scura, ma non “potente e adatta per i vaffanculo”,
come scriveva De André. Preferisce, ora che ha deciso di
parlarne, di non scrivere “per loro”, ma di scrivere
“per tutti quelli che come me stanno da questa parte del mare”,
anche per ricordarci che, nemmeno 100 anni fa i migranti eravamo
noi.
Ne esce una
suite in undici episodi, un concept album sul viaggio, inteso come
fuga alla ricerca di una nuova patria, di un biglietto per la sopravvivenza,
se non per una vita meno agra. Una vita comunque macchiata dal “colore
dell’offesa / e un abitare magro e magro / che non diventa
casa”. Mirabilmente orchestrato dalla direzione artistica
di Greg Cohen, bassista americano e vecchio sodale di Tom Waits
e con la partecipazione di ospiti eccezionali come Bill Frisell
alla chitarra e Paolo Fresu alla tromba, Gianmaria Testa dà
alle stampe un album che è un vero urlo nel piattume della
musica, anche cantautorale, di questi anni.
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E se fosse solo una
canzone? |
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Solo
sgelato "Da questa parte del mare" può dare
il meglio di sè. Un meglio che è tanto! Il disco
è bellissimo, è un'opera intensa appassionata
e partecipata. Forse troppo appassionata e troppo partecipata,
per dare luogo al capolavoro (segue) |
Violoncelli
e fisarmoniche, chitarre e clarinetti (Gabriele Mirabassi) formano
il delicato tessuto armonico su cui si stendono le figure retoriche
costruite con cura e con cura distillate in versi dal cantautore
cuneese. E’ un disco che non si può passare sotto silenzio,
ma non è nemmeno un album facile. Bisogna ascoltarlo con
attenzione, anche quando la voce diventa solo un sussurro e rischia
di perdersi nell’ordito più forte della musica. Soprattutto
bisogna “sentirlo” più che ascoltarlo. E avere
voglia di sentirlo. Non è certo un disco per tutti i momenti
e tutte le stagioni, né da radio o autoradio.
E’ un
radiodramma, è teatro da camera, è musica dell’anima
che tra strazi e sofferenze, si arrampica fino a vedere il riflesso
del cielo, sulla superficie del mare in cui magari affogare. Difficile
mantenere la stessa tensione per tutti i brani: ogni tanto la stoffa
cede e qualche strappo si intravede, ogni tanto il colore è
così cupo che si cercherebbe uno sprazzo di luce o almeno
una speranza di sole. Quando questo accade abbiamo attimi che rasentano
il sublime. Come in “Rrock” con parole che si abbattono
come mazzate, sull'incedere della chitarra elettrica di Bill Frisell,
e con una lunga coda finale vocalizzata che richiama altri mondi
e altre culture. Saggezza e rassegnazione dei vecchi, disillusione
dei giovani. "E mio padre non c'è/ è rimasto
da solo a masticare la strada / perché dice che tanto / sarà
guerra comunque / e dovunque si vada".
O ancora in
“Ritals”, dedicato alla memoria di Jean-Claude
Izzo, grandissimo autore noir francese, e improntato sul matrimonio
nickdrakiano tra chitarra acustica e violoncelli. Tanto disincarnato,
tanto poco terreno che ti si scioglie tra le mani, come nebbia leggera,
come nuvole sfilacciate dal vento. E le parole sono foglie che si
affidano alla corrente e si fanno portare lontane. E ti si offrono
come zattere per portarti lontano. Forse ancora fino al mare.
Storie di ordinari
migranti, rese poesia, rese musica, rese canzoni. Per pensare ed
emozionarsi insieme.
Gianmaria
Testa
"Da questa parte del mare"
Fuorivia / Radio Fandango- 2006
Nei negozi di dischi
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aggiornamento:11-10-2006 |