Sacro
ancestrale, terreno e spirituale: un disco obliquo ed abbracciante
di Leon Ravasi
E’
un magnifico disco obliquo e rimbalzante. E’ un disco “abbracciante”
come lo ha definito lo stesso Capossela, ma soprattutto “è
un disco”, ossia un’opera compiuta con un inizio e una
fine, un senso di marcia, delle istruzioni per l’uso che partono
dalla copertina e finiscono all’ultima nota dell’ultimo
solco un’ora, 11 minuti e 58 secondi dopo. Anzi, partono ancora
prima perché Vinicio, facendo parziale violenza a se stesso,
ha parlato del disco, lo ha presentato la sera del 19 gennaio a
Milano, nella ex chiesa sconsacrata di San Carpoforo e ha fatto
percepire l’affetto e le aspettative che nutre per questo
lavoro. Diciamolo subito che sennò ci scappa fuori: se non
è un capolavoro, poco ci manca.
Caleidoscopio
in rosso
E’ comunque un’opera d’arte da ascoltare a lungo,
da assaporare, da lasciare magari decantare un attimo, prima di
tornare ad aspirarne l’aspro sentore di tannini o il velluto
delle note che, a grappoli diseguali, ti si infilano in gola e nelle
orecchie, formando una compatta colonna sonora per questi tempi
disidratati. Difficile seguire esattamente tutte le circonvoluzioni,
i ghirigori, i disegni automatici, le contraddizioni, i giochi di
parole, i possibili equivoci di cui Vinicio costella le sue partiture.
Restano la suggestione di 13 tracce quanto mai varie eppure unitarie
nel loro eclettismo, che svariano da reminiscenze folkloriche (più
che nel passato), il senso di un blues eminentemente personale,
i ricordi d’infanzia, i topos letterari o cinematografici,
le piccole tracce sparse di rebetico, un ché di musica circense
che ci riporta immediatamente a Nino Rota e Fellini. I momenti lenti
e riflessivi hanno il netto sopravvento su quelli più forti,
ma pur nella sua lunghezza, nella sua farcitura degna di un piatto
rinascimentale, il disco non annoia mai, perché la tavolozza
dei paesaggi si impregna sempre di nuovi colori. Può sempre
essere un rosso, ma qua è carminio e là è porpora,
un po’ oltre è vermiglio e quindi trascolora in magenta.
Ma anche rosso come i paramenti di una chiesa.
La penitenza dell’amaro del mare
A livello dei testi la sensazione dominante è infatti quella
di una pervasiva spiritualità, sensazione corroborata dalle
musiche che spesso sembrano alludere a temi sacri, ma il sacro di
Capossela è più accennato che svelato: è un
approccio pasoliniano allo stupore e alla meraviglia dello spirito.
Che può essere, anche in senso pagano, quello insito nelle
cose o nei luoghi diversi, sparsi per l’Italia, in cui “Ovunque
proteggi” è stato concepito e in parte registrato:
dalla grotta preistorica di Ispingoli in Sardegna, al paese natale
del padre di Vinicio, Calitri in provincia di Avellino, al Teatro
delle voci di Treviso, alla chiesa di San Bartolomeo di Scicli (Ragusa).
Canzone eponima di questo coté spirituale è “S.S.
dei Naufragati”, già presente in quel
piccolo capolavoro, schivo e difficile, che è "Matri
mia" di Banda ionica. La versione attuale, meno bandistica,
più recitata e e dalla durata doppia è eseguita con
il coro della Cappella di San Maurizio di Milano, nella chiesa di
San Cristoforo sui Navigli e accompagnata dal violoncello/vascello
di Mario Brunello, il teremin di Vincenzo Vasi
e l’armonio di Stefano Nanni: “Oh madre mia / salvezza
prendimi nell’anima / Oh madre mia / le ossa nell’acqua”
oppure “E venne dall’acqua / venne dal sale / la penitenza
/ dell’amaro del mare”. “Questa è la ballata
/ di chi si è preso il mare / che lapide non abbia / né
ossa sulla sabbia / né polvere ritorni / ma bruci sui pennoni
/ nei fuochi sacri / i fuochi alati / della Santissima dei naufragati”.
Ma se questa è la canzone che più richiama la spiritualità
“L’uomo vivo” parla
di qualcuno che “ha lasciato il Calvario e il Sudario
/ ha lasciato la croce e la pena / si è levato il sonno di
dosso / e adesso per sempre / per sempre è con noi”.
Ma è uno strano Cristo questo, da festa popolare, da processione
laica, da alzare e fare “saltare fino che arrivi in cima fino
al ciel / fino a che veda il mar” che “barcolla e traballa
/ sul dorso della folla / si butta / si leva / al cielo si solleva”.
Un Cristo da abbracciare e portare a mangiare! E
“Non trattare”, il brano iniziale, quasi
con una giaculatoria sciamanica, ossessiva, ipnotica, invita a “non
trattare ... la tua fede non trattare / Non trattare / non ti frantumare
/ o il peccato di renda mortale”. E “Colosseo”
finisce con “il rosario della Carne”
che riporta dritto alle Sacre Scritture, ma alla loro parte più
buia e priva di gioia che un’interpretazione straniante non
riesce a sollevare. Ma in fin dei conti lo stesso titolo richiama
la preghiera, l’immagine sacra.
Il
cavallo di Troia è ciucco
Gli episodi più leggeri sono affidati a “Brucia
Troia” (sì, il doppio senso è
voluto), a “Moskovalza” e
a “Medusa cha cha cha”, che
a dire di Capossela riecheggia il twist contenuto in “Ricotta”
di Pasolini. Poi c’è “Dalla
parte di Spessotto” che è un po’
il brechtiano “dalla parte del torto” riattualizzato
e vissuto nella contrapposizione tra gli Spessotto e i Davide in
cui si dividono tutte le scuole del mondo (sarebbe come dire i Franti
e i Garrone, l’ultimo e il primo della classe). “A
sei anni sei già perduto / e quando ti interrogano rimani
muto (ma sul booklet c’è scritto “mupo”,
ennesima capriola o sberleffo?)”. Voce in secondo piano e
forse filtrata attraverso un megafono, con un potentissimo “shaba
dum dum” in primo piano, melodie da anteguerra e ritmiche
circensi. Piccolo gioiello di neo-realismo italiano.
Come è gonfia la strada di polvere e vento nel viale del
ritorno
Ma se tutto il disco ha le stimmate delle genialità e dell’intensità,
è nell’ultimo terzo dell’opera che risiedono
le tracce più interessanti: cinque canzoni lunghe, per quasi
trenta minuti di musica e parole e una successione di perle che
iniziano con “Dove siamo rimasti a terra, Nutless”,
proseguono con “Pena de l’alma”,
si fanno purezza accecante in “Lanterne rosse”,
si buttano nel gorgo della già citata “S.S. dei Naufragati”
e sfumano nella dolcezza “abbracciosa” di
“Ovunque proteggi”, canzone omonima all’intero
lavoro e piccolo seme da cui, in fondo, come informa Vinicio, è
nato tutto l’album. “Ovunque proteggi” è
nata come sola musica che doveva essere inserita ne “Il
ballo di San Vito” del 1996, ma non erano arrivate
le parole adatte. “Quella musica aveva qualcosa di sacro
- scrive Capossela nelle note di presentazione del disco - se per
sacro intendo ciò che mi è caro. Ebbene, quella musica
mi faceva rimpiangere tutto ciò che mi era caro. A parte
piangerci sopra però non sapevo cosa farmene. Quindi l’ho
messa da parte, perché pensavo che si meritasse qualcosa
di suo. L’ho protetta a mio modo”. Adesso il momento
è arrivato: sono arrivate le parole, la canzone “si
è sporta per lasciarsi afferrare dalla scrittura”
e ha coagulato attorno a sé le altre composizioni, fino a
formare, nel corso di un anno scarso, il nucleo dell’intero
disco. Un disco questo, a lungo meditato, ma in fin dei conti, composto
e registrato in sei mesi scarsi e rifinito presso le Officine Meccaniche
di Mauro Pagani, un nome che, come ormai sappiamo, sta sempre vicino
alla musica di qualità superiore. “Ovunque proteggi”
è musica di qualità superiore.
Vinicio
Capossela
"Ovunque proteggi"
Stella Nera- 2006
Nei negozi di dischi
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aggiornamento: 21-01-2006 |