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Le BiELLE RECENSIONI
Ettore Giuradei & Malacompagine: "Panciastorie"

Rock coi controcoglioni, testi pregni e tante tante storie nella pancia
di Giorgio Maimone

Parere personale: sia il De Gregori di "Pezzi" per la parte musicale che il Fossati di "Cara democrazia" avrebbero potuto passare di qua e imparare qualcosa su quale sia la dinamica del rock. Di Ettore Giuradei è quasi impossibile sapere qualcosa su Internet; assieme alla Malacompagine ha anche un sito, ma si tratta di uno dei siti più reticenti che mi sia mai capitato di incontrare. In compenso ne parla (bene) Francesco Sullo e questa mi sembra già una garanzia. Poi c'è il disco. Che gira, gira, gira da giorni nei miei lettori fissi, in quelli portatili, nei miei pc. Gira gira gira e intanto mi snocciola queste storie che escono dalla pancia e che, prima di tutto, con la pancia devono essere ascoltate.

Cosa siamo in grado di sapere con certezza? Che sono in cinque a costituire la Malacompagine (bel nome!): Ettore Giuradei, chitarra e voce e presumibilmente autore di tutti i testi; Marco Giuradei, pianoforte, organetto e cori; Gabriele Zamboni, chitarra elettrica; Luigi Picotti, basso e Marco Andrello, batteria. Una classica rock band. Viene da Brescia e credo siano ancora abbastanza giovani, ma non ho ancora avuto modo di verificarlo. E comunque, nel caso, si rasserenino: non si è giovani per sempre.

"Panciastorie - scrivono sul retro di copertina - è il tentativo di creare una canzone d'autore che non si appoggi solo malinconicamente sulle parole, ma che trovi nell'arrangiamento lo sfogo della sua motivazione più viscerale". Salvo poi che i testi "fingono" a volte di non essere importanti, ma sono invece una trave di colmo dell'intero edificio. L'altra è la voce assolutamente espressiva di Ettore Giuradei e il terzo pilastro sta proprio nel "tiro" rock che si percepisce in tutto il disco, compresi i brani lenti. Una tensione ed un pieno di suoni che, nei momenti migliori, ricordano gli altrettanto momenti migliori di Mike Scott con i Waterboys. Gran disco!

Non bisogna quindi "appoggiarsi malinconicamente sulle parole". Sostanzialmente possiamo essere d'accordo se non che il testo, quando ad esempio è un testo come questo, conta. Eccome se conta! : "Porterò con me / l’imbarazzo del primo bacio / e i tuoi occhi nel lago / le tue smorfie piccanti / strofinandoci il naso / la speranza spezzata / di toglierti le calze / di vederti dormire / coi pugni sulle guance / ... / porterò con me / l’intimità delle nostre carezze / e sorrisi puerili / la tua silenziosa sorpresa / sotto l’ultima luna / il vento freddo pungente / e l’abbraccio più caldo / e quel fare l’amore / per fermare il tempo" ("Porterò con me"). Non è forse la canzone più bella (una delle più belle), ma ha un testo tutto da leggere e godere!

Ettore Giuradei &Malacompagine
"La nebbia e il vino"

Un altro motivo del piacere indiscriminato che questo disco stimola sta nella voce, nell'uso della voce, quasi brechtiano. Un misto di declamatorio-epico e contemporaneamente un tono di straniamento che sembra alludere al fatto che lo strumento voce sia solo veicolo delle storie raccontate dal testo, rispetto al quale non prende posizione. Giuradei non è mai disperato, incazzato, dolce o violento. E' un raccontatore. Facendo i debiti paragoni è qualcosa di simile a quanto faceva Fabrizio De André all'epoca dei suoi "blues rinascimentali". Oh, intendiamoci bene: non ho detto che Ettore Giuradei è il nuovo Fabrizio De André (definizione che mozzerebbe le gambe a chiunque), solo che fa un uso della voce (e non delle timbriche, dei bassi, né tantomeno dei suoni) che riporta alla memoria la distanza che Fabrizio ha sempre messo in mezzo tra il sé, cantante e interprete, e i personaggi delle sue storie. Giuradei usa più la prima persona singolare, Fabrizio era più "esterno" anche in fase di scrittura.

Detta di questa "pallida" somiglianza, resta un disco che in 50'39" non deflette mai, se non nel finale, da una sua carica intensa e drammaticamente attuale, in cui i suoni sono parte integrante e narrante dell'intero edificio sonoro. "Nel letto di Ousman" apre le danze ed è un gran bell'aprire. Viene utilizzata a piano l'energia del rock per raccontare, senza cedere a retorica alcuna, una storia di ordinaria migrazione. E' un "Mio fratello che guardi il mondo" potenziato ed amplificato, è un "Arcangelo" che non ha bisogno delle gerarchie ecclesiastiche per morire. Pregnante.

Si prosegue con "Porterò con me", incedere lento, testo maestoso, tensione epica e musica robusta, in contrasto col cantato che è poco più che un recitato. Non si possono incidere canzoni simili se non si è intenzionati a lasciare il segno. E il segno resta. Sonorità sixty, ibridate ragtime e stille di ironia per il brano che segue: "Il poeta presuntuoso": "Io che crescevo la poesia / tra l’insofferenza e la noia / ascoltai due cazzate da un robot galvanizzato /
scoprivo un gioco sadico e normale / quasi come un calice di vino / mentre appoggiavo la testa sul pensiero".

"Tobia l'uomo delle stelle" vira più sul country, senza dimenticare la lezione jazzy. Ottimo lavoro della band, testo stralunato e parole come suoni, con abbondanza di gutturali e dentali per aumentarne la sonorità implicita ("Non resta che parlare di Ercole / Orco Ercole il cucchiaio di legno"). Diverte e piace, ma il cantante non si concede il sorriso sornione. Lo lascia intuire e lo suggerisce a noi. O è casuale o c'è tanto di quello studio, anche attorale, in "Panciastorie" da impressionare. Sono comunque bravi e tutte le ciambelle, di conseguenza sembrano venire col buco.

Siamo al pezzo forte: "La nebbia e il vino" è un gioiello dove testo e musica, cantato e suono si miscelano alla perfezione e danno vita a 3'37" di infuso di piacere, con questa serie di ripetizioni ("... sguardo stanco stanco ... autunno piano piano ... e la nebbia nebbia nebbia ... con questa sciarpa sciarpa sciarpa ... ecco sento sento sento") che portano al climax finale ("soddisfatto ed ubriaco") del "non mi svegliare", in un crescendo musicale che parte dalle radici della nebbia autunnale e sprofonda nelle ragioni del sesso e del vino in cantina. Una piccola pochade padana vissuta tra una chitarra e le cosce delle cameriera. Cinematografica.

"E' passato un autobus / e mi ha lasciato il profumo / della sua gonna corta / e dei suoi tacchi alti/ senza speranza", storia metropolitana con bell'assolo di chitarra elettrica nel finale. "So che il pianto / non dev'essere un lasciapassare / m'è servito solo / per sentirti più vicina" ("E' passato un autobus"). "Yogurt" è invece caratterizzata da una di quelle domande che danno il senso della vita: "cosa cambia quando al posto delle yogurt si mangiano arachidi poco mature?". Incisivo ritratto di malessere di coppia. Triste e imprescindibile.

Ma subito dopo passiamo al malessere personale di "Uno di voi", uno che "guarda nella tasca / ansiolitici e sonniferi / cerca nella tasca la riposta lampo / l'anima sta male". Ed è questa, con "La nebbia e il vino" e "nel letto di Ousman" uno dei vertici del disco. Canzone solenne e dolente che passa in rassegna "la catalogazione / l'identificazione / la modernizzazione / la coglionizzazione" che ci attraversa verticalmente. Siamo noi, siamo tutti noi: quelli spostati, quelli diversi, quelli che non rientrano negli schemi. Ma la risposta sistemica qual è? Arriva nell'inciso, ancora più lento e contraddistinto da una pausa di drammatica rilevanza prima della frase finale: "Quattro o cinque per gabbia / siete i prigionieri / senza senso né rabbia / siete i matti di ieri". Piccola finezza deandreiana (e ci risiamo! Ma allora è un vizio?): il ritornello finale nel testo riportato sul libretto (ma non ripetuto in canzone) cambia persona: non è più un "voi" di cui si parla, ma siamo "noi": "siamo i matti di ieri". Un unico appunto, con una canzone così si doveva chiudere il disco, per far crescere forte la voglia di ripartire subito da capo.

Seguono invece ancora tre canzoni: "Un attimo prima di dormire", molto Angelo Ruggiero-style nello svolgimento melodico, lenta e affidata a una chitarra elettrica tagliente, ma sostanzialmente di pausa, dopo una canzone tanto densa come la precedente. Di lunghezza inusitata: dura 8'14", ma molta è musica. "Non ascolto nessuno" è ancora più lenta e musicalmente scarna, quasi una ninna nanna alla Sulutumana per chiudere il disco, che contiene comunque una dichiarazione di principio: "svengo nella banalità delle parole". Non è un testo di breve momento. Ma Ettore Giuradei ha deciso di non deluderci fino alla fine.

L'undicesima e ultima canzone è in realtà una ghost track travestita da canzone: "Il pesce non lo sa" è quasi altro da tutto quello che lo precede. Tango che si trasforma in lirica che si trasforma nel Bolero di Ravel che torna a essere canto, forse polka, forse mazurka, contraddistinto da strida di gallo cedrone in amore. Se prima eravamo dalle parti di Lolli, qui ci troviamo all'improvviso in casa Jannacci. Non solo, ma il cantante qui ride, ammicca e partecipa, la registrazione è low-fi, sembra uno scherzo imbastito dal vivo. Il problema è che diverte, piace e stacca netto. Ed è proprio il contrasto a dare una spezia particolare al cibo appena degustato. Come chiudere un pranzo massiccio, innaffiato di rossi strutturati e di gran corpo, bevendo un frizzantino! Ma l'imprevisto a volte rianima.

Insomma ne abbiamo parlato a sufficienza. E' una delle migliori sorprese dell'anno (ma altre ne stanno arrivando a ritmo crescente: il 2006 promette di essere un'ottima annata, Ampliate le cantine, pardon, gli scaffali dei cd!) ed è la dimostrazione di come si possano affrontare discorsi profondi e intimamente politici, preservando sempre e comunque il piacere dell'ascolto. "Panciastorie", ossia storie di pancia, viscerali e vissute, uscirà in aprile per i tipi della Audioglobe. Rischiate anche di trovarlo in giro. Nel caso, pensateci bene prima di farvelo scappare!


Ettore Giuradei & Malacompagine
"Panciastorie"

Mizar Records (Audioglobe) - 2006
Via mail o sul sito

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Ultimo aggiornamento: 02-02-2006

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